Caro ufficio, lasciami entrare

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Di paradosso si alimenta la vita d’Arlecchino, sia esso il balordo commediante ad affannarsi in scena e suscitar sghignazzi (nella speranza d’appaiar pranzo con cena) sia esso il dirimpettaio, non meno balordo, che osserva, scomodamente assiso in platea, tribuna, loggione o, alla bisogna, direttamente in terra.
Io, che sono Arlecchino, anzi un Arlecchino appartenente alla seconda schiera, mi stupisco di continuo. Non che la mia vita sia particolarmente eroica, o avventurosa, o emozionante; tutt’altro: vivo di rimando, di ripiego, suggendo come posso emozioni dal palcoscenico (a ognuno la propria perversione), per poi scriverne.

Scriverne a chi? Per chi? Direte voi.
Bella domanda. Talvolta per gli artisti (i più aperti e curiosi, oppure i più sfigati, leggono quel che si scrive di loro, a prescindere da livello o talento), talaltra per gli spettatori (passati, presenti, futuri o mancati; anche qui i più curiosi e con più tempo da sprecare), ma, soprattutto, scrivo, e me ne dolgo, per gli addetti ai lavori, il cui culmine (nel bene e nel male) è rappresentato dagli uffici stampa, veri e principali terminali dell’atto re-censorio; a seconda del caso essi sono gentilissimi, professionali, amichevoli (in larga parte è così) oppure indisponenti, ingiustificatamente distanti e persino permalosi. Lo stupore, in effetti, è massimo, quando da un reparto comunicazione particolarmente sordo ai tentativi di contatto (varie e-mail, numerose telefonate con vari minuti di attesa, neppure fossimo al call-center di una municipalizzata) si riceve una diffida legale (che poi fosse mal scritta e ancor peggio fondata, sorvoliamo); non di meno, capita persino di assistere a spettacoli e di ricevere la richiesta (talvolta lecita, talaltra non accettabile) di non scriverne.

Lo stupore è, però, ancor maggiore quando, da un teatro, e un teatro pubblico, che riceve denaro pubblico per svolgere un servizio, lo ribadiamo, pubblico, alla ordinaria richiesta di accreditamento (chi fa critica teatrale svolge, bene o male, una funzione all’interno del sistema scenico: tutto sta nel volerla vedere e considerare) si riceve un diniego giacché “per questa stagione non sono previsti accrediti stampa“. Tutto ciò, non è relativo a spazi scenici di fortuna, a stento sopravviventi, bensì dall’Ufficio cultura del Comune di Massa, organo di competenza legato al cittadino Teatro Guglielmi. Sala da 500 spettatori, con numeri discreti e tre repliche per ogni titolo in cartellone; il che fa, in potenza, 1.500 persone a botta. Il messaggio ci par questo: il Comune di Massa non ritiene che la critica teatrale partecipi anch’essa della cultura scenica, ne sia una sorta d’ammissibile corollario; non è interessato al fatto che si parli di teatro, della sua attività, che se ne ragioni. Sì, organizza pure degli incontri con gli artisti (opzione routinaria abbastanza comune, talvolta non priva d’una sua inerzia), ma non è interessato a voci altre, a essere osservato, se non a pago. Probabilmente, vede la scena come una delle varie proposte di stimolo al consumo dei clienti, metastatica declinazione della categoria dei cittadini.

Chissà, forse il critico è visto quale parìa, un fatuo e ciarliero scroccone (talvolta è davvero così: quanta vergogna per conto terzi dinanzi alle vacanze premio delle ospitate dei festival estivi, in cambio di articoli compiacenti!) o la fonte d’una potenziale turbativa della quiete fruizione scenica: perché mai si dovrebbe discutere di teatro? Quale perversione sottende una simile e bassissima voglia? Come si permettono, questi ridanciani intrusi, nel volersi infilare in sala, per poi poterne parlare, anzi scrivere!
O, magari l’Ufficio Cultura di Massa è composto da esegeti di Carmelo Bene, che chiedeva ai critici di non interessarsi a lui, immaginando pure di cacciarli dalla sala per impedir loro di recensire: se così fosse, saremmo quasi contenti, e la posizione sarebbe comunque stimolante per innescare un confronto dialettico. Ma temiamo, anzi, siamo certi che non sia così.

Di fronte a tale panorama, un filo deprimente, come comportarci? Non si tratta, capirete, di vile pecunia, ma di metodo: e ci chiediamo se, per caso, l’Ufficio Cultura del Comune di Massa non possa, per assurdo, impedire a degli spettatori paganti di aprire un blog e discutere di quanto visto sulle tavole del Guglielmi. Non nascondiamo che un tale scenario ci parrebbe davvero affascinante.

Che fare? Andare a Massa e recensire pagando il biglietto sarebbe una piccola ingiustizia per tutti quei teatri che, fedeli alle proprie funzioni, rinunciano magari a qualcosa (si tratta pur sempre di spiccioli) perché ritengono che la critica sia non un prezzo, bensì una funzione che valga la pena supportare, una “spalla” non derogabile della vita scenica. Al contempo, non parlare di un teatro (che è altra cosa rispetto alla sua miope dirigenza!) per motivi simili sarebbe davvero insensato e non abbiamo certo l’intenzione di agire in questo modo.
La soluzione è, ci pare, una sola: scriveremo di Massa e dei suoi spettacoli, con la solenne promessa che, ogni volta che andremo al Guglielmi, proveremo a entrare alla portoghese (spacciandoci per trovarobe, attori, amici degli artisti, medici, vigili del fuoco, sacerdoti o carabinieri) o, al limite, cercheremo di ammortizzare le spese rubando ombrelli e soprabiti.
Dura vita, la vita d’Arlecchino.

l'Arlecchino
È un semplicione balordo, un servitore furfante, sempre allegro. Ma guarda che cosa si nasconde dietro la maschera! Un mago potente, un incantatore, uno stregone. Di più: egli è il rappresentante delle forze infernali.

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