La classe operaia, dallo schermo alla scena: processo (alle intenzioni)

Sguardazzo/recensione di "La classe operaia va in paradiso"

-

Cosa: La classe operaia va in paradiso
Chi: Lino Guanciale, Diana Manea, Simone Tangolo, Donatella Allegro
Dove: Firenze, Teatro della Pergola
Quando: 28/02/2018
Per quanto: 165 minuti

C’è tanto, forse pure troppo, nell’ultimo spettacolo di Claudio Longhi. Come in una matrioska, più livelli narrativi s’incastonano, lasciando lo spettatore sazio di una visione colma di citazioni e riferimenti di cui non percepisce la direzione.

In scena, i personaggi Elio Petri e Ugo Pirro (Nicola Bortolotti e Michele Dell’Utri), rispettivamente regista e sceneggiatore, alle prese con il progetto (idea, soggetto, allestimento e, infine, proiezione) della pellicola La classe operaia va in paradiso (1971), episodio capitale della cinematografia italiana e prova monstre per un attore del calibro di Gian Maria Volonté. Nella finzione scenica, la gestazione del progetto s’accavalla con le sequenze filmiche in modo serrato: chi non conoscesse la pellicola a stento riuscirebbe a distinguere trasposizioni e nuovi inserti.

All’interno di questa complessa situazione finzionale, s’inseriscono parallelismi tra mondo lavorativo attuale e quello del Novecento: la questione delle “pause fisiologiche”, il lavoro a cottimo, le numerose declinazioni dello sfruttamento che, al di là di tutto, parrebbe accomunare gli operai del secolo scorso ai monitoratissimi dipendenti delle multinazionali contemporanee. Le considerazioni sull’esiguità dei salario, l’assenza di stabilità sia occupazionale sia economica, sono, del resto, argomenti non ignoti ai lavoratori di oggi, precari, tirocinanti e prestatori d’opere occasionali.

È bravissimo Lino Guanciale nel doppio ruolo, ad alto coefficiente di rischio: il suo Volonté è istrionico, così come l’operaio Lulù, protagonista della pellicola: voce diversa per ogni declinazione, con repentini cambi di registro, di ritmo, per un’interpretazione impressionante per disinvoltura. Diana Manea ben ricalca, in gesti e modulazione della voce, una altrettanto indimenticabile Mariangela Melato: fin troppo, a volte; il confronto con la grande attrice è arduo, ma lei ci prova e, tutto sommato, il risultato è apprezzabile.

La scenografia di Guia Buzzi presenta un telo che si alza e si abbassa per le proiezioni, una serie di grandi riquadri mobili e, infine, la Machina, un impianto con due nastri trasportatori che riproduce in scena il meccanismo della catena di montaggio, sul quale, oltre agli scatoloni, passano operai e personaggi. Un’impalcatura su ruote sormonta i rulli: da quella posizione, i padroni sovrastano i propri dipendenti, impegnati col lavoro.

Il dialogo continuo tra passato e presente avviene anche grazie alle varie proiezioni che si susseguono rapide nel corso dei cambi scena: le voci e i volti di Pier Paolo Pasolini, Giorgio Gaber, Dario Fo si alternano a scene storiche di lotte operaie, sbarchi di migranti e richiami a pubblicità d’altri tempi (da Carosello, sottolineiamo Susanna Tuttapanna e Permaflex) in un pot-pourri forse eccessivamente giocato sulla carta del citazionismo.

E suona paradossale, proprio perché ci pare in aperto contrasto con il presente progetto longhiano, il monologo in cui Petri-Bortolotti critica le opere “troppo intellettuali”, rivendicando con orgoglio la propria origine “artigiana”, incline a voler realizzare pellicole in grado di parlare a tutti e che sappiano far discutere.
L’unico autentico elemento di dibattito per questo ambizioso, ma controverso, allestimento ci pare offerto da uno spettatore che, dopo uno degli intervalli musicali offerti dal bravo Simone Tangolo, alla sovrapposizione delle figure di Fanfani e Salvini, si alza e se ne va, affermando che non si può stravolgere così il senso del film.

Non si tratta, a nostro parere, di un vero tradimento: c’è più un’idea di voler creare un prodotto di alto spessore culturare, ricco di aneddoti, veramente sin troppi, che esulano totalmente da quell’intento primario e, se vogliamo, chiaro di Petri di raggiungere un pubblico qualsiasi.

VERDETTAZZO

Perché: Sì, oppure no
Se fosse... un proverbio sarebbe... "Chi troppo vuole nulla stringe"

Locandina dello spettacolo



Titolo: La classe operaia va in paradiso

dall’omonimo film di Elio Petri
(scenaggiatura Elio Petri e Ugo Pirro)
drammaturgia Paolo Di Paolo
con Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Aglaia Pappas, Simone Tangolo, Filippo Zattini
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
regia Claudio Longhi
produzione ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione

Alla sua uscita nelle sale cinematografiche nel 1971, La classe operaia va in paradiso di Elio Petri riuscì nella difficile impresa di mettere d’accordo gli opposti. Industriali, sindacalisti, studenti e giovani intellettuali gauchiste, nonché alcuni dei critici cinematografici più impegnati dell’epoca, fecero uno strano fronte comune per stroncare il film. Qualcuno non mancò addirittura di invocare il rogo di tutte le copie della pellicola. Nata per rappresentare non le ragioni di questa o quella parte, ma il mondo proprio della classe operaia – come ebbe a specificare più volte il regista – il film innescò un duro dibattito all’interno della sinistra italiana, mettendone radicalmente in discussione, nel periodo turbolento dei primi anni di piombo, l’identità ideologica e l’effettiva capacità di rappresentanza del proletariato. Tanto che la pellicola fu a lungo mal vista in patria, nonostante i numerosi premi vinti e, soprattutto, nonostante lo stato di grazia dei protagonisti, una sfolgorante galleria di stelle da Gian Maria Volonté a Mariangela Melato, a Salvo Randone… Costruito attorno alla complessa sceneggiatura di Petri e Ugo Pirro e ai materiali che testimoniano la genesi del film, così come la sua ricezione (tanto ieri quanto oggi), riassemblati in una nuova tessitura drammaturgica da Paolo Di Paolo e saldati a un impianto musicale ricco e articolato, eseguito dal vivo dallo stesso ensemble di attori coinvolti nella messinscena, a quasi cinquant’anni dal suo debutto sui grandi schermi lo spettacolo La classe operaia va in paradiso sceglie di tornare allo sguardo scandaloso ed eterodosso, a tratti straniante, del film stesso, per provare a riflettere sulla recente storia politica e culturale del nostro Paese. “La nostra epoca del consumo ultraveloce, segnata tanto dalla sovraesposizione mediatica e dalla bulimia dell’informazione quanto dal più completo vuoto ideologico, produrrebbe probabilmente reazioni molto diverse da allora, marcando una notevole distanza culturale, distanza che forse sarebbe da misurare in questi anni bui d’inizio millennio. Gli anni in cui, per esempio, il famigerato cognitariato ha preso, sotto tanti aspetti, il posto del proletariato di un tempo, ereditandone modi e follie”.

Francesca Cecconi
Da attrice a fotografa di scena per approdare alla mise en espace delle proprie critiche. Under35 precaria con una passione per la regia teatrale. Ha allestito una sua versione di Casa di bambola di Ibsen. Se fosse un’attrice: Tosca D’Aquino per somiglianza, Rossella Falk per l’eleganza, la Littizzetto per "tutto" il resto.