Il rigore in tribuna

Sguardazzo/recensione di "Tango del calcio di rigore"

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Cosa: Tango del calcio di rigore
Chi: Giorgio Gallione, Neri Marcorè, Ugo Dighero
Dove: Lucca, Teatro del Giglio
Quando: 07/02/2020
Per quanto: 110 minuti

Il connubio teatro-calcio non è cosa nuova: dal Discorso su due piedi di Enrico Ghezzi e Carmelo Bene, al memorabile Italia-Brasile 3-2 d’un quasi debuttante Davide Enia, il pallone ha sempre esercitato un fascino speciale (anche) sui teatranti, in scena e fuori. Nel nostro pezzo d’occidente, parlar di calcio è occuparsi del mondo, nelle sue più minute sfaccettature: lo sport è campo d’epica, serbatoio inesauribile di spunti, storie, e su questo assunto si è comprensibilmente basato Giorgio Gallione nel costruire Tango del calcio di rigore, avvalendosi di Neri Marcorè e Ugo Dighero.

Ambiente unico, maestoso: uno sfondo di colore cangiante a tema silvestre su cui si stagliano i cinque interpreti, impegnati in un racconto perlopiù corale, col filo del discorso (microfonato) a trascorrere di bocca in bocca, puntuale partitura di ritmi e accenti. I volti noti (motivo di sala gremita e doppia replica al sabato), sono affiancati da Rosanna Naddeo, Fabrizio Costella e Alessandro Pizzuto, questi ultimi inizialmente con maschera bianca. 

25 giugno 1978, ultimo atto del Mundial d’Argentina svoltosi in un clima irreale: carri armati lungo le strade, tifosi in delirio su las bancas per il trionfo della selezione albiceleste e del generale Videla. In tribuna, di fianco al dittatore, un italiano di cui si parla pure in questi giorni, Licio Gelli, sua spalla economica; poco distanti, tra Rio de la Plata e Atlantico, gli oppositori del regime cacciati giù dagli aerei: desaparecidos. Brivido: la memoria corre al libro di Pablo Llonto, I mondiali della vergogna (leggetelo, se possibile). 

L’allestimento, però, muta ben presto di tono, accenti, colori: dagli irresistibili racconti di Osvaldo Soriano (raccolti in Fútbol e Pensare con i piedi) si passa ai reportage giornalistici di Ryszard Kapuscinski, nutrimenti consueti per chi mastichi un po’ di calcio, storia e letteratura. Il tentativo sembra quello d’una polifonia tra alto e basso, serio e faceto, dalle parti del miglior Shakespeare. Eppure, più di qualcosa non quadra: la recita poggia sin troppo sulla rassicurante presenza del volto noto, al di là d’una sua performance francamente né carne né pesce, evidenziando una fragilità strutturale difficilmente discutibile. I numeri si susseguono privi d’amalgama, d’un disegno coerente, qualcosa che, al di là del tema dichiarato, leghi l’insieme in un costrutto solido: si sghignazza, talvolta; si pensa, talaltra; restando però sospesi in una bolla annoiata, e con noi il pubblico, benché lo scroscio plaudente sia ormai d’obbligo in un’epoca ove l’espressione del dissenso è riservata all’illusoria invisibilità garantita da schermo e tastiera. Non solo: se il fine è quello d’uno spettacolo sostanzialmente di narrazione, a che pro coinvolgere cinque attori mettendo in campo una soluzione pressoché da esercizio di laboratorio teatrale? Di questi tempi, più si dà lavoro e meglio è, e l’impressione di spreco riguarda più l’occasione che le risorse. 

Unico guizzo, l’idiota, troppo idiota canzone simil-messicana d’un portentoso Dighero: sombrero in capo, calzone di fustagno con palla cucita al piede, occhi spiritati e un coro di cactus a dar manforte sull’implausibile ritornello, una specie di Porfirio Villarosa (Fred Buscaglione) eseguita da mariachi. Momento ubuesco, del tutto fuori misura e scala rispetto al resto, da sembrarci, senza ironia, geniale. Poco, troppo poco, per salvare uno spettacolo di grandi mezzi e scarsi risultati, senza neppure il coraggio di seguire le premesse dichiarate.
Le sale si riempiono e, per qualcuno, va tutto bene così.

VERDETTAZZO

Perché: No
Se fosse... una salsa sarebbe... una maionese impazzita

Locandina dello spettacolo



Titolo: Tango del calcio di rigore

produzione TEATRO NAZIONALE DI GENOVA

A quarant’anni dai mondiali in Argentina, un bambino di allora rievoca storie di "futbol" e di politica, a cavallo tra mito, realismo magico e storia. 25 giugno 1978. All’Estadio Monumental di Buenos Aires si gioca Argentina-Olanda, finale dei mondiali di calcio. Il clima è incandescente: l’Argentina deve vincere a tutti i costi. Seduto in tribuna d’onore c’è, infatti, il generale Jorge Videla, il burattinaio del mondiale, al potere dal golpe del 1976. Accanto a lui, c’è Licio Gelli, il Venerabile della loggia P2, suo amico personale. La partita finisce 3 a 1 per i padroni di casa e chiude la più vasta e costosa operazione di propaganda politica a mezzo dello sport dopo le Olimpiadi tedesche del ’36. Almeno per una sera in Argentina si farà festa. Dal giorno dopo, però, i “voli della morte” riprenderanno puntuali e le Madri di Plaza de Mayo ricominceranno a chiedere giustizia. A quarant’anni di distanza da quei giorni terribili, un bambino di allora, oggi adulto, cerca di ricostruire il suo passato di appassionato di calcio, recuperando storie di “futbol”, a cavallo tra mito, realismo magico e realtà storica. Questo dolente “tango”, ballato al ritmo di un calcio di rigore, evoca storie e personaggi imprevedibili. Ecco il figlio del cowboy Butch Cassidy che arbitra, pistole alla mano, un surreale campionato giocato in Patagonia nel 1942. Oppure la “prima guerra del football”, sobillata dalla CIA e combattuta nel 1969 tra Salvador e Honduras; o l’episodio del rigore più lungo della storia del calcio, protagonista suo malgrado Gato Diaz, anziano portiere dell’Estrella Polar. E ancora la storia di Francisco Valdes, capitano del Cile, costretto dai militari di Pinochet a segnare un gol senza alcun avversario in campo. Uno spettacolo tra mito e inchiesta, musica, favola e teatro civile, che forse sarebbe piaciuto a Osvaldo Soriano e a Ryszard Kapuscinzki.

Igor Vazzaz
Toscofriulano, rockstar egonauta e maestro di vita, si occupa di teatro, sport, musica, enogastronomia. Scrive, suona, insegna, disimpara e, talvolta, pubblica libri o dischi. Il suo cane è pazzo.