De Summa Black Hole Sun

Sguardazzo/recensione di "La cerimonia"

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Cosa: La cerimonia
Chi: Oscar De Summa, Marina Occhionero, Vanessa Korn, Marco Manfredi,
Dove: Prato, Teatro Fabbrichino
Quando: 31/03/2017
Per quanto: 70 minuti

La precarietà (sia chiaro: non ci stiamo lamentando) è uno dei segni del contemporaneo, a teatro come altrove: non solo gli spettacoli si reggono, realizzano, progettano sulla base di equilibri instabili quanto volitivi (si veda il caso recentissimo, e triste, di Orizzonti Festival e quel che n’è conseguito), ma anche la critica, atto sempre e comunque derivato rispetto alla prova scenica, si dibatte in un sistema di fragili equilibri, di tempo e spazio. La presente supercazzola (che tanto supercazzola non è) ci offre l’occasione di ragionare a tempo indebito d’un pregevole spettacolo andato in scena oltre due mesi fa, testo e regia di Oscar De Summa, artista d’innegabile vaglia, cui pure questi schermi hanno riservato critiche più o meno sferzanti.

Lo avevamo lasciato a Firenze, assiso su un trono parsoci malfermo, lo ritroviamo poco distante, a Prato, nel cubo avoriato del Fabbrichino, per La cerimonia. Solo in apparenza, il confronto col classico sembra cadere, ché nel contemporaneissimo dramma a quattro ordito all’uopo, l’echeggiare del mito edipico è sciente malizia, a partire da nomi e ribaltamenti di sorta: c’è Edi (Marina Occhionero), adolescente preda d’un disperato e accidioso cinismo, l’annichilita coppia d’inetti genitori (Vanessa KornMarco Manfredi, Giò e Laio), il fool veggente (De Summa medesimo), un Tiresia versione zio irregolare ma avvedutissimo, mentore perfetto per la fanciulla aspirante hikikomori (pratica di autoisolamento sociale che, dal Giappone degli anni Ottanta, si è diffusa in altre parti del mondo).

La partitura procede per quadri e strappi, in un ventaglio che abbraccia ulteriori soluzioni brechtiane (lo schermo sullo sfondo a proiettare, sottolineandole, alcune porzioni di testo) e una paradossale ambientazione metafisica, con il tavolo al quale seggono i protagonisti, senza altri oggetti circostanti. Atmosfera di tesa sfibratura, resa sanguinante da una selezione musicale che rimbalza in scena massicce porzioni di rock anni Novanta. Edi anela il vuoto, sempre meglio degli slogan propinatigli da una madre in disarmo, un padre in procinto di cambiar vita e sesso, per un’autentica fiera della vanità, nell’etimo di vano come mancante, mancato, privo di sostanza. 

Tiresia/Tigre/De Summa, non senza didascalismi, distribuisce sapida controsaggezza in pillole: parla di male necessario, di vita, di provare a lasciar questo mondo migliore di come lo si sia trovato. Tutto si sfarina: i legami, gli affetti, il matrimonio, il senso del dovere d’una ragazza che annuncia a quelle figurine capitatele in sorte a mo’ di genitori (in tal senso, l’ostentata stilizzazione recitativa ha il suo perché) l’abbandono scolastico. Tutto implode, nella pastoia limacciosa della famiglia, in una fusione che odora d’idrocarburi, come la plastica disciolta di questi anni. Ed è curioso che il pensiero sia, durante la visione dello spettacolo, andato alle grida di Chris Cornell, scomparso nel lasso di tempo intercorso con la scrittura di queste righe. Tutto implode, benché, proprio nel punto di fusione, in quella Cena di Fine millenio allestita dall’inquieta Edi, De Summa riesca comunque a inserire un lacerto di stranita speranza.

Storia nera, La cerimonia congiunge con sapienza scenica mito tragico e impossibilità di questo, concrezione dolente tra la Tebe antica e un contemporaneo ben imbevuto di quegli anni Novanta che punteggiano (pure troppo, purtroppo) certi sguardi sul nostro (presunto) quotidiano odierno. 
Applausi, però, per un De Summa che torna a “far male”, con efficacia teatrale. Non è poco, anzi.

VERDETTAZZO

Perché:
Se fosse... un'arma sarebbe... una katana

Locandina dello spettacolo



Titolo: La cerimonia

di Oscar De Summa
regia Oscar De Summa
con Oscar De Summa, Vanessa Korn, Marco Manfredi, Marina Occhionero
scene e costumi Lorenzo Banci
luci Roberto Innocenti
produzione Teatro Metastasio di Prato


Intercetto la mia anima Schierandomi esattamente al centro Della mia età Cos’è che ci muove, che ci fa scegliere, che ci fa andare verso qualcosa o qualcuno, nonostante noi? Qual è quella cosa irrinunciabile della quale non possiamo fare a meno, al di là di tutto? Quella cosa che sottende alle nostre scelte? Quelle scelte che ci impongono un dire come: non potevo fare diversamente? Edi è una ragazza normale, con una vita normale. Non fa niente di veramente sbagliato ma neanche niente che la identifichi con un primato. Non si distingue in nessuna graduatoria, sia essa declinata al bene o pericolosamente al male. Ha una vita sociale sufficiente, un buon rendimento a scuola, nessuna brutta compagnia la induce a nessuna pericolosa esperienza. Galleggia dolcemente sulla superficie della vita. Al di là della normale confusione che può avere una ragazza ancora adolescente, non si sente attratta davvero da nessuna cosa, nessuna situazione, nessun vero desiderio. Una hikikomori che si ritira dalla vita ancora prima di averla sperimentata. La sua non è un’apatia generalizzata e generazionale che risponde al nome di capriccio, ma una vera e propria mancanza che trova la sua motivazione in un’assenza. Avere tutte le possibilità corrisponde a non averne nessuna se non vi è una regola, un limite, un proibito che definisce il contorno della scoperta e del superamento, che sprigiona l’adrenalina proprio in questo superamento, che ci rivela nella ricerca, proprio perché ci obbliga ad andare oltre il conosciuto, e mettendoci in gioco ci rivela a noi stessi. Analizzando il mito di Edipo ci accorgiamo che il padre, il nome del padre, inteso come funzione, che deve e vuole creare la mancanza, la ferita, ha il compito preciso di impedire il soddisfacimento dell’incontro del figlio con la madre; ha il compito preciso di interrompere il rapporto simbiotico tra i due. Proprio quel padre che tanto abbiamo odiato, noi che ora dovremmo essere i padri, proprio quel padre è ora l’assente inaccettabile. Diventando non più la legge ma l’amico del figlio, il suo antagonista nel quotidiano. Ha negato al figlio la sacrosanta ribellione generatrice dell’identità. Così tutto resta uguale a tutto e allora non c’è più motivo di scegliere, non c’è più desiderio, non c’è più quella passione che sa sempre portarci oltre noi stessi nel paradosso fondante della perdita che stabilisce l’identità. E qui il mercato capitalista ha avuto la sua intuizione più diabolica sostituendosi alla legge e inasprendo un desiderio piccolo di oggetti che per definizione non riusciranno mai a creare esperienza e crescita, rischio e soddisfazione. Nessun telefono nuovo, per quanto sofisticato, potrà prendere il posto dello sguardo del padre. Oscar De Summa

Igor Vazzaz
Toscofriulano, rockstar egonauta e maestro di vita, si occupa di teatro, sport, musica, enogastronomia. Scrive, suona, insegna, disimpara e, talvolta, pubblica libri o dischi. Il suo cane è pazzo.