Teatro, parola densa, indecifrabile nell’etimo mai del tutto certo, significante il cui significato indica un luogo (anzi: mille e più, diversissimi tra loro), un’arte, un’idea liquida e dilagabile. E attore, altro lemma troppo bello per esser com-preso, con-tenuto. Già lo scrivemmo, e sicuro lo riscriveremo: per caso, o forse no, teatro e attore costituiscono un anagramma; con gusto lo riveliamo, talvolta, assaporando la scintilla che alluma l’occhio dell’interlocutore.

A tale coincidenza abbiamo pensato seguendo Gaetanto Ventriglia nel suo Otello alzati e cammina. Giunti al Teatro Florenskij, centro di Livorno, s’entra da una porta a vetro come quelle di tanti negozi che punteggia(va)no le strade limitrofe al Mercatino ameriàno, cuore pulsante, per oltre mezzo secolo, del trovarobato cittadino e non. Altri tempi, ora il fascino labronico è difeso dalla rossissima osteria Melafumo, sempre gremita all’inverosimile, un ponce al volo (e alla vela) per la modica cifra di un euro.
Via, a teatro.
La minuta tribuna opposta all’ingresso del Florenskij ospita un gruppuscolo di spettatori più che un pubblico: curiosi e ben disposti, attendono in buon ordine il f-atto scenico.

Ventriglia entra, la luce s’abbassa, pur restando d’un neutro innaturale. Poco o nulla intorno: una chitarra, abbandonata in fondo a destra, qualche oggettucolo. Voce fiochissima, d’un soffiato dolce, sciente rovesciamento dei principi che un tempo (quanto tempo) governavano l’arte attorica: ha inizio un’avventura scenica insinuata tra le pieghe del testo scespiriano, minuziosa cernita di cosa tenere e cosa buttare di quel plesso magnifico e ingombrante che è The Tragedy of Othello, the Moor of Venice.

Ventriglia è Jago, Desdomona, Cassio, Roderigo e, ovviamente, il Moro: c’è tutto, in quest’opera di scarnificazione analitica, in questa risalita marlowiana (pensiamo al protagonista di Cuore di tenebra di Conrad, più che all’immenso collega coevo del Bardo) sino alla sorgente non del testo, ma del senso. E delle pulsioni che muovono l’inaccettabile, e troppo umana, reazione del condottiero al soldo del Doge, reso cieco dalla spietata regia del consigliere ingannatore.

È un flusso di coscienza ininterrotto e discreto, quello che porta l’attore a far di sé teatro, fluttuando tra i personaggi, spumando tra le maglie del dramma per inserti paradossali (mangia una ricotta, accenna un blues rurale – diremmo Skip James) sino all’evangelico riferimento del titolo. I gesti minimi, e per questo potenti, a informar l’aria d’una sorta d’aura: il pensiero va, per il lavorìo di scrittura scenica, al Bene di quegli Shakespeare traditi eppur rigorosissimi, benché la misura sia antipodica all’esorbitante tracimazione del salentino. Non si tratta d’inscatolar gli artisti come prodotti, ma descrivere, nel tentativo di render visibile, comunicabile, quel che comunicare non si può. Lo confessiamo, abbiamo intrasentito, nel tarlo a dilaniare il cuore d’un Moro mai stato così bianco, allampanato, sgarrupato, echi di Eduardo, e di Leo De Berardinis.
Ventriglia, come questi, ci pare lavorar di sottrazione: non solo testuale, non solo nel collocare il fatto e l’atto scenico al centro del suo operare, ma anche volumetrica, gestuale, dando così vita a una performance difficilmente eludibile.

E quanto è Otello, in quello struggente (e pure idiota, a suo modo) tormento dubbioso circa la fedeltà dell’incolpevole Desdemona; ma anche Prospero, abbandonato sulla riva ultima di quell’isola in tempesta chiamata teatro. Applausi, da spettatori, e non dal pubblico, che s’alzano e camminano, rapiti, per una volta, da un attore che non ha fatto (soltanto) spettacolo.