Sguardi sul “Mauser” di Dario Marconcini

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Vi sono spettacoli che, aderendo a un circuito consolidato, commerciale o d’altra natura, necessitano di notazioni critiche a vagliarne, discuterne, analizzarne le opzioni messe in campo, procedendo per considerazioni analogiche, intuizioni dell’osservatore, confronti con altri allestimenti analoghi o con i testi a monte (là dove questi siano presenti). Vi sono, altresì, spettacoli, ma dovremmo dire allestimenti teatrali, la cui natura è differente, procedurale, di ricerca: quest’ultimo termine non deve confondersi con il genere di solito coincidente con il teatro “d’arte”, slegato dalla dimensione mercatista, bensì con una possibilità più concretamente genuina, che precede la categorizzazione, il canone, e necessita di sguardi “aperti”, che abdichino alla categoria impura e difficile del giudizio. 
È il caso di Mauser, allucinata/allucinante drammaturgia di Heiner Müller nell’ambiziosa rilettura proposta di Dario Marconcini. Diversamente rispetto agli ultimi lavori dell’apprezzatissimo regista pontederese, si tratta di un allestimento che coinvolge interpreti professionisti (le bravissime Paola Marcone, che finalmente ritroviamo in scena, e Giovanna Daddi, cui l’utilizzo, per reale infortunio, d’un bastone conferisce un qualcosa di austero, ieratico, assolutamente in linea col personaggio da giudice kafkiano) e performer assai giovani, tutt’ora in formazione. Citiamo Giovanni Buscarino, nel ruolo principale del killer che, una volta soddisfatte le richieste del sistema, da questi viene rigettato, messo a processo, ma anche gli altri (Edoardo Altamura, Irene Falconcini, Silvia Frino, Francesca Galli, Meryem Ghannan, Francesco Grumetti, Viviana Marino), tutte presenze inquiete, pressanti, a formare un coro misterioso e inflessibile.
Interessante l’impiego dello spazio: come per L’angelo dell’inverno, visto proprio a Buti qualche anno fa, e per il Riccardo III nella regia di Renata Palminiello a Pistoia nella scorsa stagione, la platea è del tutto sgomberata dalle poltroncine (col pubblico sistemato sui palchetti), per una scena a comprendere lo spazio a ferro di cavallo sino a tutto il palco. Le luci (di Riccardo Gargiulo) debbono così coprire un’ampia porzione di teatro, contribuendo a sagomare opportunamente lo spazio a seconda delle sequenze. 
Impossibile, rispetto a un simile lavoro, prodursi in una recensione ordinaria, ché si rischierebbe di tralasciare, appunto, la sua intima natura procedurale, aperta. E, dunque, dopo avervi fornito un sommario racconto della messinscena, meglio lasciar parlare le immagini catturate dalla macchina fotografica dell’arlecchino Andrea Simi

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