Home Blog

Il tenero, gorgonico Giacomo

Un tavolo, una lampada. Inforca gli occhiali, e gli occhi gufeschi, già grandi per conto loro, appaiono ampliati dalla rifrazione. Sorride e, come in altre circostanze, si rivolge al pubblico senza filtri, finzioni: siamo a teatro insinua il suo brechtiano understatement, nell’ostinato rifiuto a considerar l’artista speciale rispetto allo spettatore.
Nessun albatros baudelairiano: uno di noi, né più né meno.
Parla a noi, come noi, Giacomo Verde, illustrando l’idea sorgente del lavoro: da anni trascrive su un’agendina, con parole e disegni colorati, i ricordi, suoi e di amici, legati a malattie, convalescenze, infortuni, quelle particolari sospensioni del tempo costituite dall’esser malati. Non allude (ancora) alla propria condizione, bensì a quella malattia “bambina”, fatta di febbroni, gambe ingessate, punti qua e là. Questa l’idea, e una mela, sezionata lungo l’asse orizzontale: il taglio “inedito” sembra far sparire il torsolo, creando un disegno che richiama un fiore, potenziando la simbologia vitale già propria del frutto. 

Sfoglia pagine che una camera riprende e un proiettore riporta su uno schermo, alla sinistra. Storie, date, nomi, giorni, nel seguire docenze, lavori, prospettive sfumate, ristrettezze economiche. A dispetto del curriculum, Verde vive impelagato nell’incertezza, i rossi in banca neanche troppo sfiorati. Precario e sorridente. Come sorride la platea, alle picaresche vicissitudini d’un artista che mai ha voluto “sistemarsi”, smarcandosi non tanto dal benessere, quanto dalla tossicità del successo, rifiutandone l’atteggiamento muscolare, violento, per cui o si è qualcuno o si muore (cioè: si vivacchia, che è morire per la società dello spettacolo). Eppure, quanto impera la dittatura del successo, anche e proprio negli ambiti sedicenti giusti, ma che comunque mirano al nome: così va il mondo, e remar contro, è troppo complicato.
Sorridiamo pure noi, tra segni e parole, col dubbio che l’umorismo prevalga forse troppo su una narrazione che potrebbe (e dovrebbe) trasmettere anche inquietudine. Giacomo è questo: mai calca la mano sul serio(so), e le vicende da ingentilito Factotum bukowskiano sembrano un gioco, quando, invece, sono anche vita. 

Ecco la malattia, una neoplasia prostatica, presente e viva. Senza la minima drammatizzazione, pure nell’annunciare il pellegrinaggio laico una volta terminata con successo la terapia intrapresa.
Da qui, uno spettacolo ingegnoso, ma non troppo sorprendente, s’approssima al capolavoro.

Musica mediorientale, basso e batteria ritmati.
Verde si alza. Guadagna il centro.
Occhi serrati, braccia in alto.
Accenna una danza, impercettibile, poi decisa, benché di gesti minimi, ideografici.
Il fascio di luce sgombra del proiettore lo investe: la silhouette si stampa nel bianco del quadro e pensiamo a
In girum di Roberto Castello, peraltro supervisore di questo lavoro. La figura non è (più) Giacomo Verde, teknoartista che conosciamo, raccontato nei saggi, fondatore della presente elettrorivista. È maschera, forma ulteriore, superiore e inferiore rispetto all’umano, un’entità che ci descrive, superandoci.
La sequenza è interminabile (circa 8’), eppure mai vorremmo che finisse: l’onda emotiva è impressionante. E non perché siamo tutti amici suoi, anzi: questo
non è luisu di lui. Da lui promana, per giungere, autentico miracolo, alla dimensione gorgonica della maschera, quel tutti e nessuno che solo il principio primo (e ultimo) del vero teatro, può lambire.

In questo sapiente, quanto naturale, impasto di vita (abbiamo pensato a certi lavori di Deflorian-Tagliarini, non sempre amati), troviamo la scintilla d’un allestimento memorabile, e se il mercato non lo recepirà, cazzi suoi. E vostri. Noi c’eravamo.

Faccia di bronzo, coscienza da Karamazov

Il sipario si apre su una scena spoglia, cupa, carica di pesantezza. Lo starec Zosima (Paolo Lorima), affaticato e invecchiato dalla malattia, seduto al centro del palco, sembra occupare tutto lo spazio disponibile con la solennità della sua scura figura. Un giovane, anch’esso in abito da monaco, si muove nervosamente attorno a lui, preoccupato. È Aleksej (Pavel Zelinskiy), in attesa del padre e degli altri fratelli. La vicenda dei Karamazov prende le mosse da una disastrosa riunione di famiglia alla presenza del già citato starec, chiamato a giudicare e consigliare: Dimitrij (Laurence Mazzoni), non più innamorato di Katerina Ivanovna (Giulia Galiani), conosciuta ai tempi in cui prestava servizio nell’esercito, è ora follemente invaghito di un’altra donna, Grušenka (Alice Giroldini). In questo suo turbolento e passionale amore si trova ad avere il padre Fëdor (Glauco Mauri) come rivale. Una schermaglia a più voci cui prendono parte pure il secondogenito Ivàn (Roberto Sturno), cinico intellettuale, e Smerdjakov (Luca Terracciano), quarto (illegittimo) Karamazov.

Chi si fosse avvicinato a I Fratelli Karamazov con l’aspettativa di vedere sul palco, in carne e ossa, una fedele trasposizione dell’omonimo romanzo, l’equivalente teatrale di uno sceneggiato in due puntate, rimarrebbe certo deluso: le mille e più pagine non potrebbero esaurirsi entro le due ore di spettacolo; ma chi, invece, vi abbia cercato tracce della poetica di Dostoevskij, fatta di polifonia e ambivalenze, o «una comédie humaine alla russa», per dirlo con le parole del regista Matteo Tarasco, allora, ecco che con l’adattamento a opera dello stesso regista e di Mauri, ha colto nel segno.

Tonalità neutre, una scenografia a pannelli scorrevoli che rende rapidi e puliti i cambi di scena, pochi elementi significativi e funzionali alla narrazione e, infine, una componente musicale mai invadente, votata al riempimento dei vuoti e alla drammatizzazione di brevi scambi di battute, fanno da cornice all’andirivieni di questi eroi ed eroine imperfetti, inquieti e volubili, vera e propria ossatura portante cui si affida l’intera messinscena.

Un cast esperto, indubbiamente all’altezza, in cui spicca la coppia Mauri-Sturno, per la terza volta alle prese con un soggetto dostoevskiano e che già avevamo avuto modo di apprezzare (qui lo sguardazzo), è chiamato a dar voce ai conflitti che animano la narrazione, sviscerare l’animo e abitare il guscio dei personaggi da interpretare, senza cadere nel caricaturale. Tra dialoghi serrati e monologhi (ampio risalto è dato alla parte sul Grande Inquisitore), si scontrano sentimenti e convinzioni: ora l’amore, quello passionale di Dimitrij e Fedor, quello pietoso di Katerina, ora la fede di Alekseij e il rifiuto della stessa da parte di Ivan.
«Ma Dio… Dio esiste?» domanda ricorrente, che apre l’indagine, necessaria e conseguente all’affermare di Ivan che se Dio non esiste, allora vale tutto, sul libero arbitrio.
Se il parricidio è per Alekseij e Dimitrij risolutivo, l’inizio di qualcosa d’altro, per Ivàn e Smerdjakov è devastante rottura.

Sarà infine Ivàn, distrutto dalla febbre cerebrale e dal suicidio del fratello, ormai delirante, a rompere il sottile vetro tra palco e platea, «e tu cos’hai da guardare?» chiede al Diavolo, seduto tra noi: non più osservatori pure noi colpevoli, pure noi Karamazov.

Uno spettacolo da manuale, che non delude le aspettative, ma che forse nemmeno meraviglia, salutato dal pubblico della Pergola con un caloroso e prolungato applauso.

Otello dark

Il secondo appuntamento della stagione lirica del Teatro del Giglio riprende, dopo 55 anni di assenza, uno degli ultimi capolavori di Giuseppe Verdi. Seconda delle tre opere di diretta derivazione scespiriana (il compositore fu un ammiratore del Bardo fin da giovanissimo), l’Otello è, di per sé, un soggetto che ha molto in comune con il melodramma: un fazzoletto al centro dell’intrigo, un protagonista poco accorto, il conflitto tra dimensione privata e pubblica/politica.

Il terzetto dei cantanti che danno vita all’opera è eccellente. Mikheil Sheshaberidze è il generale veneziano che ritorna a Cipro vittorioso: il tenore georgiano ha guadagnato fiducia durante il primo atto, per poi procedere con sicurezza tra le insidie del resto dell’opera. La moglie, di cui viene messa in dubbio la fedeltà, è interpretata da un’intensa Elisa Balbo, sempre molto misurata e precisa. Chi davvero spicca, in scena come sulla locandina, è Luca Micheletti: sempre al Giglio, nel 2013, fu la rivelazione di La resistibile ascesa di Arturo Ui, che gli valse l’UBU come migliore attore non protagonista; lo ritroviamo adesso come baritono, ed è un altro successo. Perfettamente a proprio agio nei panni del perfido Jago, Micheletti impressiona non solo per la voce ben centrata e squillante, ma soprattutto per le doti attoriali: ogni parola è cantata con chiarezza e pregnanza, mentre la consapevolezza scenica ne conferma la statura teatrale. A chi non frequenta il melodramma questi possono sembrare rilievi superflui, ma certe doti, non di rado, latitano tra i cantanti.

Cristina Mazzavillani Muti firma la regia di questo pregevole lavoro che ha debuttato a Ravenna nell’autunno scorso. L’allestimento parte, idealmente, dal nero, tanto che per buona parte del primo atto si fa fatica a percepire la struttura del cupo apparato scenico. Dal buio emergono talvolta solo volti e pochi oggetti, grazie ai costumi molto scuri di Alessandro Lai: in questo modo, la regista può facilmente direzionare l’attenzione dello spettatore.
Vincent Longuemare utilizza la scatola scenica come una tela caravaggesca, le sue luci precise fendono nettamente lo spazio, in un percorso di scoperta dell’esistente che va dal particolare al generale. In quest’economia di mezzi, tutto assume un significato chiaro: tra i pochi colori in scena, il rosso è il colore di Otello e degli stendardi veneziani, mentre Desdemona è sempre in vesti candide – bianca, infatti, come viene spesso menzionata nel libretto; Jago, invece, sembra vestito come gli altri della corte, ma le ampie maniche chiare lo rendono facilmente identificabile.

La resa visiva è sicuramente efficace, così come la direzione dei cantanti-attori: in sintesi, lo spettacolo è più che piacevole da vedere e da sentire, complice Nicola Paszkowski alla guida di una smagliante Orchestra Giovanile Luigi Cherubini.
Si avverte, però, una lettura poco profonda del dramma da parte della regista: il trio Verdi-Boito-Shakespeare ci offre elementi etico-politici (il tradimento), psicologici (la gelosia), e criminali (l’omicidio di una donna da parte del partner) che val la pena problematizzare per usare il testo in modo più tagliente e scomodo. In questa occasione, il soggetto viene usato per costruire uno spettacolo molto suggestivo, con ottimi interpreti e una buona sapienza teatrale, ma non si aggiunge niente al significato dello stesso: non c’è niente di male (ad averne, di spettacoli del genere!) ma è con un intimo senso di manchevolezza che ci uniamo ai copiosi e meritati applausi del teatro lucchese.

Don Chisciotte: un uomo con la paura di morire

In Italia, si tende ad arrivare sempre un pelino in ritardo su anniversari e ricorrenze. È per questo motivo che nel 2019 vediamo il pullulare di rappresentazioni legate al Don Chisciotte, nonostante il 400° anniversario della morte dell’autore si sia festeggiato tre anni fa in terra spagnola. Si parte dalla riscrittura dalle tinte comiche Don Chisci@tte di Arca Azzurra con Alessandro Benvenuti e Stefano Fresi, alla versione carrettiana di Ultimo Chisciotte di Maria Grazia Cipriani, fino ad arrivare a Don Chisciotte nell’adattamento di Francesco Niccolini. Ed è proprio a quest’ultimo allestimento che abbiamo assistito, nella bella cornice del Teatro Nuovo di Verona, e di cui vi parliamo piacevolmente colpiti.

Don Chisciotte è ambientato in una scenografia che si scompone e ricompone plurime volte, aiutata da fondali in tessuto, che scendono e risalgono per celare e rivelare nuovi spazi: una struttura scenica che si fonda sull’immaginazione dello spettatore (potere indiscusso della scatola magica) che si sposa alla perfezione con la fantasia del cavaliere errante. Un plauso va alla meravigliosa figura di Ronzinante, cavallo meccanico mosso dal notevole Nicolò Diana posizionato al suo interno, che ne gestisce gli spostamenti (grazie all’ausilio di ruote posizionate al termine delle zampe) e i movimenti del muso, andando a sottolineare le sfumature espressive dell’animale, oltre a cenni con orecchie e coda, senza tralasciare la simulazione del respiro e del nitrito.  Di altra fattezza, invece, l’asinello o ciuchino,  indossato da Serra Yilmaz nel comico ruolo di Sancho Panza, la quale inserendo gambe e corpo all’interno di una specie di ciambella dall’aspetto del quadrupede, si sposta ciondolando da un lato all’altro del palcoscenico. Alcuni elementi tratti dal teatro di figura si rivedono nella scena in cui Don Chisciotte viene calato nel pozzo dove, attraverso forme in cartoon di donne e sagome strane, mosse da attori nerovestiti, si entra in uno spazio onirico e fatato; o ancora nella battaglia con il cavaliere oscuro (che ricorda alcune statue dal soggetto equino di Igor Mitoraj), dove questi è suddiviso in varie parti, agite da performer ancora in nero, che si separano e si uniscono ogni qualvolta ricevono un fendente, in una vera e propria danza bellica.

Il romanzo di Cervantes viene ripreso e alleggerito in ogni sua parte, dando ai quattro personaggi – che fanno da sfondo – ruoli diversi ma sempre con un compito specifico, come per esempio quando, in proscenio, si trovano a descrivere le peripezie del hidalgo con il suo fiero scudiero, quasi ad adempiere alla funzione della rhesis del teatro greco.

Battute giocate sul riso, grazie allo stretto rapporto tra Boni e Yilmaz, accresciuto da una mimica fortemente espressiva di lei, in contrasto con la corpulenta voce impostata di lui; o ancora la serietà nella visione fantastica del Don in antitesi con la cruda realtà dello scudiero. Un’enorme pala di un mulino a vento fuoriesce da una quinta facendo urlare il nostro cavaliere contro ipotetici giganti da sconfiggere, riconsegnando allo spettatore una nuova immagine, fortemente espressiva, della celebre scena letteraria. La poesia di Cervantes non manca, come del resto il gioco immaginifico che attraverso le parole di Don Chisciotte diventa reale, facendolo da un lato passar per pazzo, mentre dall’altro rendendolo autentico nella sua follia. Don Chisciotte è un uomo con la paura di morire e che prima di concedersi a un sonno eterno, vive i suoi ultimi istanti nel miglior modo possibile: come un vero eroe cavalleresco.

Un finale aperto ci permette di porre lo sguardo non più su un cavaliere errante, ma su un uomo, che può essere ora un combattente in guerra, ora uno studioso costretto ad abiurare le proprie scoperte.

Hannah e (l’altro) Adolf

Effetto deja-vu: per oltre vent’anni, Copenhagen, solido dramma di Michael Frayn per la regia di Mauro Avogadro, ha imperversato sulle nostre scene, forte d’un terzetto rodatissimo (Umberto Orsini, Giuliana Lojodice e Massimo Popolizio), un allestimento strutturato, un tema (la scienza che si fa braccio alla guerra) spinosissimo.
L’impressione è che, al mutar dei nomi mantenendo il regista, con questo
Eichmann si sia voluto ritentare l’operazione. Gli ingredienti ci sarebbero: ottime firme autorali; statura degli interpreti; linguaggio coerente e in continuità tra i due lavori, entrambi d’ambientazioni scure, secche geometrie tra personaggi, per un teatro aggrumato sulle parole dei caratteri; infine, una tematica, il nazismo e l’origine del male, che vale senz’altro la pena di affrontare.
Nondimeno, gli ingredienti non bastano mai da soli: in teatro come in cucina, s’ha bisogno di mano all’impasto, cura sapiente, riposo, nell’ineffabile dinamica che permetta a ogni elemento di sprigionare la propria efficacia. Mai l’enunciato è in sé bastante a dire qualcosa, ed è questa sensazione, nel lesto rialzarci dalla poltrona, che ci accompagna al freddo serotino d’una Padova deserta, massacrata da due anni di pandemia.

Hannah Arendt/Ottavia Piccolo, da un lato, Adolf Eichmann/Paolo Pierobon, dall’altro: la scrittrice-filosofa, allieva di Martin Heidegger, acuta indagatrice della mediocre ordinarietà da cui origina il male, faccia a faccia con l’enigmatico esecutore della Endlösung der Judenfrage, nell’ambiziosissimo dialogo ordito da Stefano Massini.
Se in
Copenhagen, Frayn dava forma a un incontro effettivamente accaduto nel 1941, qui il drammaturgo fiorentino appronta una ricucitura testuale, intrecciando i verbali del processo israeliano ai danni del tedesco e il commento “in diretta” offerto dalla scrittrice d’adozione statunitense: correva l’anno 1962. Ne trae una drammaturgia serrata, ove le parole s’alternano ai piani d’emissione vocale (che bellezza, due attori di razza senza microfoni, pur in uno spazio ampio), riprodotti da una scenografia di praticabili ad altezze scostate, sedie poggiate su livelli diversi, in un chirugico disegno dei movimenti.
Parole pesanti, da un lato, quasi leggere, dall’altro: è forse un peccato che il tratto più felice sia quello a rendere
l’altro Adolf, complice un’interpretazione magistrale, quadratissima di Pierobon; il suo Eichmann è copioso di sfumature, sulfureo, razionalistico, ben più profondo della filosofa incarnata da Piccolo, a tratti monocorde quanto a recitazione, forse per un dettato di retorico umanismo che tradisce, in parte, la complessità del suo pensiero.

Il problema è che per trattare efficacemente del male, lo si deve amare, penetrare, cogliendone il perverso fascino intrinseco: questo riesce pure, quando a parlare è Eichmann, ma la mancanza di forza nella controparte scenica finisce col nuocere al costrutto complessivo. Volgendo lo sguardo al nazismo, al paradosso di questa non ideologia (rimandiamo a Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno) che, obliterando la figura dell’altrui soggettività, si vota alla paranoia patologica, è impossibile non pensare a quel capolavoro di complessità che è Salò, o le 120 giornate di Sodoma, pellicola quintessenziale, impreziosita dalla inaccettabile solidarietà tra il suo autore, Pier Paolo Pasolini, e i mediocrissimi, larvali, tirannici seviziatori del suo racconto. Un dramma a due con Arendt e Eichmann protagonisti dovrebbe avere il coraggio di puntare a quel livello d’indagine, e niente di meno. A questo lavoro d’impianto televisivo persino nelle musiche, manca invece l’affaccio sull’abisso che un cimento del genere non solo pretenderebbe, ma impone. 

Uno spettacolo dimidiato, nonostante le dichiarate intenzioni: un’occasione perduta.

L’Armata BrancaLatini, o della rivisitazione

Otto figure assise su una sbarra calata dall’alto. Calzoni scuri, maglie che richiamano le divise di Star Trek (sei colori, anziché tre). Epifania metafisica, dai contorni pirandelliani, à la maniera d’un Latini (ne applaudimmo i Giganti della montagna) che per tutto lo spettacolo è presenza/assenza muta, spirito aleggiante ai margini della recita: è un Brancaleone depurato di grottesco quanto di cappa e spada, questa possente macchina teatrale, scatola scura i cui soli arredi sono una muta e incrostata parete bianca di fondo, la sbarra, che ora va, ora viene, e alcune geometrie solide basilari, come il grande pallone bianco, figura lunare di sicura efficacia. Le luci di Max Mugnai fanno l’ambiente, definendone tratti e funzioni, in consolidato affiatamento con le musiche e i paesaggi sonori di Gianluca Misiti, da sempre co-artefici del teatrante romano.

Della pellicola restano i gusci semivuoti delle parole, e la sequenza degli episodi, con scelte di cast sorprendenti quanto felici: sotto la bruna zazzera scarmigliata del protagonista, Elena Bucci nel personaggio che fu di Vittorio Gassman, versione misurata, ma non dimessa, sin dalle prime battute nel maldestro controllo del (mal)destriero Aquilante offerto da Francesco Pennacchia (lo ricordiamo attore morgantiano). Savino Paparella rende un impressionante calco sonoro di Abacuc, mentre Ciro Masella è… l’intera armata: trascorre, senza soluzione di continuità, da Taccone a Mangoldo sino a Pecoro, il tutto con la semplice (!) increspatura di corpo e voce. Marco Sgrosso è un allucinatissimo e smagliante Zenone, Marco Vergani un Teofilatto discostato dall’originale di Volonté, Claudia Marsicano un’altra interprete multifunzionale, perfettamente in bolla tra presenza fisica e prestazione vocale. Ai lati-sopra-sotto quest’efficacissima compagnia, lui, l’uomo in nero, parrucca paglierina, bastone, cappello: spunta, sbuca, occhieggia, figura umbratile stagliata sul fondale quando la musica si fa ritmata.  

Spettacolo strano, questo Brancaleone: ricorda l’Ubu Roi di anni addietro (capolavoro indimenticabile), sia per il cast sia per il peculiare ruolo che Latini si riserva, come un inciso  jazz, variazione sul tema insinuata nel quadro, modificandone poeticamente equilibri ed esiti. A Jarry, s’affiancava l’incipit sospeso dei primati e la figura di Pinocchio; qui, al richiamo trekker s’aggiunge la misteriosa, afasica entità in nero: soltanto in fondo profferisce motto, a chiuder la commedia. Declama un testo denso, anaforico, quasi un Dino Campana, sino alla frattura che è, anch’essa, citazione risonante: il «Bravo… Grazie!» innescato da Bucci, reminiscenza petroliniana, evocazione d’un nume tutelare di tanto nostro teatro (più Bene che Proietti), a interrompere, sospendere, congelare il Branca, Branca, Branca… che segna la fine.

Molti i fili tirati dalla visione d’un ordito tanto complesso, che in 80’ ha il pregio di ipnotizzare la sala: se l’Ubu era macchina perfetta (anche) grazie alla natura teatrale del testo sorgente, qui, il rapporto con la fonte è vischioso. L’impressione è di un’opera (il film) messa “al servizio” della poetica dell’artista, anziché d’un coagulo tra quest’ultima e la natura intima del testo (latu senso) tradotto in scena. Dai cinema, all’epoca, uscivano ridendo, imitando la lingua brancaleonesca; dal teatro, si esce ammirati per un lavoro egregio, che individua e amplifica la natura absurdista del picaresco originale, scansandone (scientemente) la dimensione pop-popolare, scelta sulla cui liceità si può discutere, e discutiamo.
Applausi, comunque, a josa, e fischi inviperiti per un sistema teatrale incapace di recepire in distribuzione un lavoro come questo, “condannandolo” ad appena nove repliche.

Parole brevi, significati lunghissimi

Colmi di quella soddisfazione che solo l’aver trovato parcheggio a Firenze al primo tentativo può regalare, prendiamo posto nel piacevolmente affollato Teatro Cantiere Florida. Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati e Giulio Santolini, membri del collettivo di ricerca teatrale Sotterraneo, accedono al palco da una porta laterale, uno alla volta e scrutando i dintorni. A mo’ di presentazione dei personaggi nei titoli di testa di un film le prime parole intraducibili proiettate sullo schermo appeso al centro della scena, sottotitolano un qualche tratto peculiare degli attori che, zaino in spalla, scarponi ai piedi e tende alla mano, si distribuiscono sulla scena.

Bonaventura prende il centro del palco e spiega brevemente come è iniziato Atlante linguistico della Pangea: nel pieno del primo lockdown, tra cori sui balconi e panificati di varie forme, il collettivo fiorentino si imbatte nella lettura di Lost in translation. Incuriositi e temporaneamente disoccupati, i Sotterraneo decidono di contattare i parlanti delle lingue a cui afferiscono le parole impossibili da tradurre, se non con lunghe perifrasi, illustrate nel volumetto di Ella Frances Sanders. La ricerca che ne emerge, prima di approdare alla forma teatrale, passa per la miniserie Dizionario illustrato della Pangea presente sul canale YouTube di emiliaromagnateatro.

L’intelaiatura dello spettacolo, ridotta al minimo, è semplice: la parola interroga e la scena traduce. Utilizzando gli oggetti presi dagli zaini da trekking, il gruppo si dispone sul palco costruendo piccoli contesti per il vocabolo di turno: miniature silenziose, quadri animati patetici e vivaci, strisce comiche à la Charlie Brown ora si avvicendano, da un angolo all’altro della scatola scenica, ora si scontrano e rimescolano al centro. Non mancano le parole dei parlanti nativi contattati dalla compagnia i quali, mediante brevi registrazioni video, con voce divertita, tra l’incantato e l’incantevole, colmano la distanza tra significante e significato, tra concetto astratto e utilizzo pratico.

Al netto di un’idea di partenza brillante, si ha l’impressione che questo Atlante linguistico abbia ancora margine sia per contrarsi sia per dilatarsi, cristallizzarsi in una icastica critica politico-sociale o acquisire maggiore densità narrativa o, ancora, sciogliersi in una dolceamara lettera d’amore per il linguaggio. Uno spettacolo che non manca di coinvolgere e meravigliare, ben sostenuto dai cinque attori, che si dimostrano sia pronti a pizzicare lo spettatore scivolando con naturalezza oltre la quarta parete sia abili nelle numerose scene coreografiche e collegiali.

Due momenti concerto sospendono la narrazione. Nel primo, sotto fredde luci taglienti, risuona Toxicity (System of a Down) a soppesare tutte quelle parole il cui significato ci grava sulle spalle e nell’altro, In a manner of speaking (Tuxedomoon) si accorda con morbide immagini, a soffiare via tutti quei modi d’esprimersi teneri e accoglienti che, e qui prendo a prestito da un altro libro che è un minimo glossario emotivo di persiano, «già solo la parola è un pulcino».

Infine, l’elemento giocoso si attenua e affiora un soffocante senso di resa.
Chiude lo spettacolo un fiume di parole inevitabilmente intraducibili. Il gruppo si stringe sul proscenio. I Sotterraneo si fanno megafono per la voce registrata dell’ultima parlante di una lingua ormai morta, un’anzianissima donna a cui regalano finalmente risposta in una conversazione vivida e tuttavia irrealizzabile. Una conclusione (troppo) breve, ma sufficientemente d’impatto, che trasla l’ora di messinscena in una dimensione di critica verso la mancata tutela della varietà linguistica e di vaga malinconia e irrequietezza per la pur sempre naturale e inevitabile perdita di parole e linguaggi.

“Tokka” & more – traduzione in forma scenica di Sotterraneo

Palco nudo, sul fondo uno schermo bianco in attesa di proiezione. I protagonisti entrano uno a uno, in silenzio. In spalla coloratissimi zainoni da trekking, mascherina sul volto e abiti da viaggio. Le scarpe paiono adatte al cammino, ma sono dichiaratamente sceniche: suole a carroarmato bianchissime, mai state su strada, tomaie flessibili di colori naturali ma inadatte a qualsiasi tipo di intemperie. È chiaro che si indossano per la voglia di un viaggio: Atlante linguistico della Pangea, infatti, nasce e cresce durante il lockdown del 2020 e ne conserva i segni fino in scena. 

Ciascuno dei viaggiatori, al suo ingresso, viene presentato da una parola non italiana, proiettata sullo schermo assieme alla sua traduzione: arranca il maldestro portatore di una Kabelsalat (tedesco: groviglio di cavi) per un microfono; entra lo Shlimazel  (yiddish: il perseguitato dalla sfortuna) a cui continua a scivolare per terra il tappetino da viaggio; compare un Layogenic (tagalog: persona attraente solo se vista da lontano) che cerca la miglior posizione… gli accostamenti persona-parola divertono, si ride e si entra in sintonia con significati finora ignoti attraverso la strada corta (sebbene non scontata) della simpatia (“sentire con”).

Durante il lockdown, dicevamo, Sotterraneo ha viaggiato a suo modo, complice lo spunto di un libro dedicato alle “parole intraducibili” che qui diventano canovaccio per un’azione scenica sempre corale: i termini sulle diapositive commentano, anticipano, collegano la sequenza di gag, danze, azioni che ci che porta tra i branchi di renne in Finlandia, dentro un concerto rock grottesco e disperato, fino in Giappone in vena di tenerezze, in direzione di Marte scrivendo una lettera a Elon Musk… La traduzione scenica delle parole è fisica, potente e divertita, prende il pubblico, è la cifra più efficace dello spettacolo, à la Sotterraneo.

Ma, peccato, si cala di qualche tacca quando lo spettacolo si vuol fare reportage di linguistica applicata, di antropologia culturale: talvolta, infatti, l’azione s’arresta e a una nuova diapositiva segue un breve video sottotitolato in italiano, in cui un parlante nativo spiega il senso della parola in questione, condividendo (attraverso un inglese veicolare,  koiné imprescindibile d’oggi) piccoli spaccati di cultura locale, narrazioni, confidenze che rendono possibile comprendere ciò che quella lingua ha isolato e reso perspicuo con una sola parola. È chiaro allora che le parole intraducibili sono comprensibilissime, solo che ci sia un mutuo intento di spiegarsi e di voler capire: fatto non banale, ma forse premessa già condivisa, così che lo spettacolo rischia di aggiungere poco, se non qualche “non tutti sanno che…” al bagaglio culturale ed emotivo di chi assiste. Sul finire, un momento di mestizia, un poco telefonata, nel dare corpo all’osservazione che muoiono, le lingue, se muoiono le persone che le parlano, e assieme muoiono le loro culture, tradizioni, prospettive. 

Dopo i lunghi e meritati applausi, segno anche dell’entusiasmo e sollievo di ritrovarsi a teatro in una sala capiente al 100%, i componenti di Sotterraneo tornano sul palco sedendosi zitti al centro della scena, commiato in presenza al pubblico che se ne esce: e a chi scrive, come ogni volta dopo un buono spettacolo, resta addosso un po’di Hiraeth, nostalgia di un posto dove non puoi più tornare.

P.S. – A proposito di “non tutti sanno che…”: un atlante linguistico delle terre emerse esiste davvero e si chiama WALS (World Atlas of Language Structures). Punto di riferimento per la comunità accademica dei linguisti, non è però un dizionario, ma descrive e confronta strutture e proprietà delle lingue del mondo.

Dio, tra le pieghe del linguaggio

Quaranta minuti da scolpire su pietra. Tutt’altro che facili, o leggibili, ma non sta scritto in nessun dove che teatro e arte debbano essere, per forza, facili o leggibili. 

Una luce lattiginosa e calda rischiara un quadrato soprelevato dal palco, scena nella scena. Viene abitato da due presenze muliebri, larvatamente inquietanti, identicamente e pudicamente vestite: maglioncino, gonna castigata, quaderno sotto braccio, come testimoni di Geova in attesa di prede. In sottofondo, rumori, studiatissimi.

Si danno un la, le due, promanando un discorso unico a due voci: la minima piegatura tonale è perfettamente riprodotta all’unisono, in simbiotica esecuzione corale. Cantano, e parlano, dipanando una beffarda interrogazione all’indirizzo d’un terzo che, ovviamente, non c’è. Non replica. La lingua è delicata, caricaturale, sporcata quanto basta d’un che di romagnolo, senza mai parodiare. Nondimeno, la questione è eterna, consustanziale; riguarda Lui, Dio, presenza/assenza alla stregua di quel God(ot) destinato a mai manifestarsi. 

«Mi sento girare… mi sento girare…», ritornello che punteggia il dettato, lo àncora a una dimensione logica, eppure sfuggente. Due Parche, come le streghe ghignanti di Macbeth ad annunciare trono e sventura, queste due puntualissime coreute, voci incarnate d’una drammaturgia post-absurdista: il testo è di una, Claudia Castelucci, e risale a una ventina d’anni fa; dell’altra, Chiara Guidi, le scelte ritmiche, e musicali, a rendere la performance più densa e abbacinante di quanto non facciano le sole parole. Questa una delle lezioni più presenti nel lavoro di Guidi: non v’è parola senza suono, e non v’è suono senza intonazione; ecco dunque il cesellare le sillabe, ora squadrate ora levigate, calibrando la minima modulazione.

Dio non replica, è muto, o morto, o chissà dove, fulcro eterno e ineludibile per millenni di pensiero occidentale. Lo squittio questuante s’avviluppa nei tranelli del linguaggio, il dialetto si fa più marcato («Me sento cattiva…»): a noi “mortali” sovvengono certe cose di Antonio Rezza, private, però, del lubrificante zuccarino della comicità. La desolazione sembra la medesima, e forse pure il disisperato cinismo che, chiuso il primo segmento testuale, proietta sul fondale una serie di pubblicità testuali dal sapore brechtiano, anticipate dall’avviso «Pubblicità volontaria. Se vedi, leggi. Se leggi, comprendi», sottolineando la condanna insita nel linguaggio (una volta appreso a comprendere, non si può disimparare).

È sempre il linguaggio tra i fulcri degli altri due brani, ove il discorso a due voci muta in dialogo, confronto aspro, a tratti angosciante: «Come ti chiami?», reiterato allo sfinimento, a esaurirne i sensi possibili, interrogando la lingua stessa, la parola, la sua intenzione, la sua posizione rispetto a chi la pronuncia. 

Non c’è traccia di virtuosismo né di compiacimento per una performance tanto ieratica da giustificare tale sospetto: il tutto ha una sua intima necessità, e la forma, potente quanto inafferrabile, fa pensare al teatro greco antico, così distante, e inumano
In conclusione, la separazione diviene spaziale: Chiara esce dal quadrato, al termine di un’ulteriore tirata, questa volta sul saluto, «Ciao». Se ne va, minuta, quasi alla chetichella, eppure è uno scossone.

Raro, rarissimo assistere a del teatro tanto antico, nel senso più profondo del termine, antipodico a “sorpassato”, come quello della Societas. Uno spettacolo (lo si ascolti qui) che, in quanto grande opera, ha bisogno di tempo, e cura, per essere assimilato, dinamica pressoché sconosciuta, ormai, ai nostri tempi.
Non si poteva chiudere in modo migliore, questa serie di Lucca Visioni.

A lui, gli occhi: a voi, l’anima del fool

«Sogno, o son desto?», così si rimane dopo i 100 minuti di Anima!, composito lavoro offerto da Leviedelfool del polimorfico e talentuoso Simone Perinelli, terzo spettacolo della rassegna Lucca Visioni. Si potrebbe trattare della perfetta centratura del bersaglio da parte del teatrante romano, di cui da tempo seguiamo le gesta, apprezzandone le indubbie doti sceniche, la potenza poetica, la grande capacità di costruzione. 

Lo sguardo è sin da principio accolto in un dedalo di visioni, rimandi, suggestioni sinestetiche: scena dominata dal bianco, nitore sul quale si stagliano quattro figure tra l’animalesco e l’antropomorfo. Aleggia un apologo sospeso: 

«Moltissimi gatti si sono radunati in una casa diroccata e deserta, dove un uomo li sta osservando di nascosto. Un gatto balza sul muro e grida: “Dite a Dildrum che Doldrum è morto”. L’uomo va a casa e ripete la frase alla moglie, al che il gatto di casa fa un balzo e miagola: “Allora il re dei gatti sono io!” e scompare su per il camino». 

È l’abbrivio d’una complessa, oppure facilissima, apposizione di scene, slittamenti, soluzioni teatrico-musicali in cui i quattro performer (oltre a Perinelli, la ricciuta e formosa Sussanah Iheme, lo scultoreo e flessuoso Ian Gualdani già ammirato nel Caligola carrettiano, l’autenticamente gattesco e sornionissimo Alessandro Sesti), danno fondo a ogni risorsa. Occhi e orecchie diventano ostaggi delle azioni inscenate, che lambiscono ogni possibilità espressiva: dall’ostentata spettacolarizzazione del canto sdilinquito a momenti di toccante intimismo, nella paradossale potenza d’una fragilità esibita. Tanto, e forse pure troppo:  come in un pasto pantagruelico, il rischio è la perdita di definizione, il naufragio in cotanto mare di suggestioni, posto il plauso per uno spettacolo, anzi un teatro, che si offre nella sua più plateale onestà. L’eccesso di forma e forme dell’orditura è un grande tentativo poetico, cui difetta qualche (dolorosa e) netta decisione circa cosa offrire a chi non ha assistito al percorso d’allestimento, le tracce seguite, gli spunti, un plesso di segni certo interessante da conoscere. Ed è curioso che, nelle repliche successive a questa, la comunicazione sulla messinscena includa delle Istruzioni per l’uso

  • Partecipa allo spettacolo con la stessa attesa, con la stessa illusione con cui ci si addormenta: il sogno può rivelarsi oppure no;
  • Il sogno non è una scena del crimine: non c’è una ragione da cercare o una legenda per decifrare la scena. I segni si auto-generano e si auto-annientano, solo tu puoi scegliere quali riconoscere;
  • Lasciati trasportare dalla logica dell’onirico. Le leggi che governano la superficie del mondo non sono in vigore in questo spettacolo;
  • Non cercare il tema. Cogli i riferimenti che trovi più avvincenti: ogni associazione emotiva o intellettuale che scaturirà dentro di te sarà la più giusta per immergerti nel mondo di ANIMA!

Leggendo queste dritte assieme al resto degli scritti sull’operazione, pensiamo di capire maggiormente lo scopo di Perinelli, che contrasta, in modo tutt’altro che polemico, con la condanna della critica, ossia quella di parlare, rendere logos, quanto di ben più grande rispetto alla logica si dia, e cioè l’opera d’arte. E questo giustifica il dissidio tra il nostro sguardo e una messinscena tanto opulenta di intuizioni: a fronte d’un lavorone, si ha come l’aria d’essere, per dirla in poesia, della razza di chi rimane a terra, come l’osservatore della fanciulla Esterina protagonista del Falsetto di Eugenio Montale. Nondimeno, gli applausi sono meritatissimi, quanto le perplessità per un Teatro del Giglio che, il giorno stesso in cui va in scena questo lavoro e alla vigilia della prima, storica, recita della Societas a Lucca, diffonde un comunicato sul primo titolo della stagione di prosa (il non teatro di Michela Murgia, su cui magari torneremo) tacendo di questi appuntamenti immediati, una forma di autolesionismo che neppure val la pena sforzarsi di capire.

Sarà un paese per vecchi, il “Futuro Anteriore” di Ferrara Off

La scena è sgombra, nuda: s’intuisce la presenza laterale di qualche arredo, un tavolo, una poltrona, più alcuni oggetti non del tutto distinguibili. Un’attrice, Gloria Giacopini, raggiunge il centro: impugna un leggio, piazzandosi in proscenio. Parla rivolta al pubblico, come quando, secondo le consuetudini di certa commedia all’improvvisa, s’usava dichiarare l’argomento della recita: siamo, non da ora, una nazione a crescita zero, situazione che alcuni demografi definiscono unicum irreversibile e, se non fosse per la parziale azione di riequilibrio garantita dai fenomeni migratori, già da tempo saremmo, come saremo senz’altro, un paese di vecchi.

Il punto, sottolinea Giacopini, è come tale prospettiva sia tutt’altro che inerte: anzi, chiamerà in causa modifiche profonde della nostra vita sociale, dai particolari più banali legati al traffico stradale sino alla conformazione delle nostre case. La sfida di Futuro Anteriore è, dunque, immaginare come possa essere un mondo popolato in prevalenza da anziani: attraverso i corpi, le voci e le azioni dei quattro performer (oltre a Giacopini, Matilde Buzzoni, Antonio De Nitto e Matilde Vigna) ecco prendere corpo una messinscena sinuosa, all’insegna della fluidità, dove sono gli attori a dettare tempi, modificare lo spazio, dar vita a quadri che slittano l’un dentro l’altro senza soluzione di continuità. Lo spettacolo di Ferrara OFF proietta lo spettatore in un dedalo di situazioni, da un lato quotidiane, tristemente usuali, dall’altro rese eclatanti dall’ostensione scenica, come se la proiezione teatrale potenziasse ulteriormente il portato emotivo dell’accadente. La cocciutaggine capricciosa dell’anziano renitente agli aiuti che va incontro all’infortunio domestico, le numerose circostanze nosocomiali, ora amarissime ora agrodolci, aprono lo squarcio su realtà ben conosciute dalla maggior parte del pubblico (avere a che fare con anziani è cosa comune), senza mai perdere una misura delicata, pur non ignara d’un qualche humour. 

Si ha la sensazione che lo spettacolo punti molto, forse troppo, sul contenuto, certo interessante, ma, a nostro avviso, mai del tutto dirimente: piuttosto, in una certa coazione a ripetere si ha la sensazione d’un rischio evitabile, quello d’una sostanziale prevedibilità, quasi mancasse uno scarto, un salto di qualità sul piano dell’immaginazione. Anche perché, se proprio dovessimo discutere l’assunto da cui parte la drammaturgia di Margherita Mauro, rimarcheremmo l’assenza di una riflessione a proposito della tecnologia: limitandoci all’(ex ricco, ma comunque avanzato) occidente, ogni prospettiva d’avvenire che non tenga conto dei progressi sia nel campo dell’assistenza personale sia nel rallentamento dei processi di degenerazione fisica, rischia di suonare sin troppo parziale. Nondimeno, lo scarto di cui sopra, proprio nella scena finale, arriva eccome, ed è qualcosa che accade, in particolare, nella recitazione di Matilde Vigna: un momento di teatro, di teatro autentico, in senso morgantiano, e cioè qualcosa di piccolo, di imprevedibile, di fragilissimo, eppure prezioso, incommensurabile. Nell’ultimo slittamento, complice tutto il quartetto d’interpreti, è come se la scena subisse una scossa, un’esitazione sospesa su un abisso, immediatamente assorbita dalla conclusione, come fosse un abbraccio. Impossibile, e non per l’illusorio e insensato stigma dello spoiler, dire di più: quel che è ineffabile non vuol descrizioni.

Si resta colpiti, alfine, di come possa essere sufficiente un bagliore di teatro per schiarire un’ora intera di spettacolo, fenomeno a suo modo intimo e minuto, perfettamente in linea, dunque, con il tema dichiarato (l’intimità, appunto) della rassegna Lucca Visioni, promossa dal Teatro Del Carretto. Applausi.

Diritto alla morte, “Lo Psicopompo” di Scena Verticale

Psicopompo, non molti lo sanno, è una parola inclusa nel nostro vocabolario: derivante dal greco, indica la figura che traghetta le anime dal mondo dei vivi a quello dei morti. L’esempio più celebre è quello, pure grazie all’Alighieri, di Caronte; trattandosi d’una figura archetipa, anche il cristianesimo ha il suo nocchiero nell’arcangelo Michele, che sovente l’iconografia ritrae scortatore d’anime buone sottratte al demonio.
E Michele è il nome del personaggio di
Dario De Luca nel lavoro che lo vede trino, autore, regista e attore: ne ascoltiamo, a inizio recita, la voce off, in una telefonata “logistica”, relativa a un incontro. Lo troviamo, subito dopo, in uno spazio di sapore borghese: al centro, un canapé trapuntato, quasi un arredo da seduta psicanalitica; sulla destra, un mobile-giradischi; dietro, una possente parete a cornice che delimita e dimezza il palcoscenico. Con lui, una donna bionda, signorile, sui sessanta, capelli scarmigliati, sospesa tra l’evidente sconcerto e una disperazione non dissimulabile. L’agnizione, il reciproco riconoscimento, avvenuta fuori scena: adesso è l’imbarazzo rancoroso ad avviluppare questa coppia madre-figlio, entità nucleare che chissà quale detonazione ha allontanato, forse irrimediabilmente. Il motivo dell’inattesa reunion rappresenta il cuore del dramma: Michele è un infermiere e, clandestinamente, presta servizio a coloro che vogliono porre fine a una vita resa insopportabile dalla malattia; è uno psicopompo del nostro tempo. Mai si sarebbe figurato, però, di trovarsi davanti colei che la vita gliela diede, partorendo.

Questo l’abbrivio per una scherma drammatica serratissima, a tratti violenta, eppure misurata nei toni e nei gesti: Milvia Marigliano è debordante per vibrata efficacia e profondità vocale, e il suo italiano sporcato di settentrionale disegna perfettamente questa signora acuta, sensibile, presente a sé quanto decisa a farla finita, pur in assenza di malattia terminale. Il testo qui s’acumina: Michele s’oppone, dice, giustamente, di non essere un assassino, che il suo lavoro, ancorché illegale, è misericordioso, perché pone fine a sofferenze indicibili. Ma soltanto la medicina può arrogarsi il diritto di definire quali siano o meno le sofferenze dicibili? Questione spinosa, divenuta centrale nella nostra realtà pandemica.

Emergono traumi più o meno rimossi, la morte del fratello maggiore Gabriele (altro nome d’arcangelo…), violinista, e la musica irrompe sia nello spazio teatrale (l’ouverture di Also Sprach Zarathustra di Richard Strauss, tema cardine di 2001 Odissea nello spazio, titolo persino citato da Michele, e Music for Airports, di Brian Eno) sia su pagina, giacché ogni scena è introdotta da un’indicazione di andamento musicale. E lo spazio si modifica, a vista, coi due che spostano la parete di fondo, prima inclinandola di lato rispetto all’asse del proscenio, poi collocandola parallelamente a quest’ultimo, sorta di cornice entro cui si svolge la scena finale, dato che gli attori recitano dietro a quello che si rivela un velo. Le soluzioni visive, coerenti e azzeccate, traducono la dimensione asfittica del dramma e l’insostenibilità del finale, che sembra necessitare l’allontanamento implicito e all’inquadramento di secondo grado (l’arco scenico è cornice già di per sé) e alla schermatura. La scelta esiziale si compie, così come un ultimo, estremo e fuori tempo massimo riavvicinamento tra i due, quasi a sfidare l’ineluttabile solitudine della morte.

Applausi per un lavoro denso che inaugura Lucca Visioni, rassegna proposta dal Teatro Del Carretto, unica offerta di teatro contemporaneo in una città che pare condannata all’intrattenimento.