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Pinter o la coscienza dell’assassino

Sguardazzo/recensione di "Il calapranzi"

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Cosa: Il calapranzi
Chi: Mila Vanzini, Claudia Caldarano, Roberta Lidia De Stefano
Dove: Livorno, Nuovo Teatro delle Commedie
Quando: 20/03/2015
Per quanto: 70 minuti

Chi bazzica teatri e teatranti sa che Harold Pinter è autore frequentatissimo negli ultimi decenni (sulle molteplici ragioni di questa fortuna scenica non è qui il caso di argomentare); e sa anche che tra i testi del Premio Nobel londinese Il calapranzi (cioè “montavivande”, traduzione letterale dell’originale The Dumb Waiter, che però perde la doppiezza semantica dell’inglese) è uno dei titoli più gettonati. Compagnie professionistiche e amatoriali vi si cimentano con regolarità, facendo assegnamento sulla sua semplicità esecutiva: sono sufficienti due attori, una scenografia essenziale (meglio ancora se l’ambiente è squallido, poco illuminato e claustrofobico) e una recitazione che può anche essere imprecisa, dovendo restituire un senso di inerzia, di alienazione, di squilibrio.

Propriamente, si tratta di un breve atto unico scritto nel 1957, con caratteristiche seminali rispetto alla successiva produzione pinteriana, etichettata con la definizione di “teatro della minaccia” (lo stesso sottoinsieme in cui potremmo inserire Chi ha paura di Virginia Woolf? di Albee, e che comunque, per la frammentarietà sincopata dei dialoghi e l’atmosfera ansiogena, non è lontano dalla narrativa di Chandler e Hammett riversatasi nel cinema noir americano degli anni Quaranta).

Tutto sommato, allora, sembrerebbe difficile uscire stupiti da una rappresentazione del Calapranzi. Capita invece che una compagnia di giovani performer, in un teatro sicuramente periferico e di pochi mezzi qual è il Nuovo Teatro delle Commedie di Livorno, riesca a mettere in scena qualcosa di inconsueto e, per certi versi, memorabile.

calapranzi2L’ambigua situazione in cui si trovano i due sicari Ben e Gus, qui appunto interpretati da due donne (rispettivamente Roberta Lidia De Stefano e Claudia Caldarano, guidate da Mila Vanzini), assume connotati nuovi, interessanti. I due (anzi, le due) aspettano l’incarico di uccidere qualcuno, nel chiuso di un sotterraneo, a far da sciacquini per ciò che avviene al piano di sopra (dove si intuisce essere un ristorante in malora, forse, dal cui calapranzi un capo che non si vede mai ordina pietanze ormai esaurite). Nell’attesa parlano, discutono; di niente, cioè di sciocchezze, eppure si avverte qualcosa di irrisolto, carico di tensione: l’irritabilità di Ben, le ingenue domande di Gus, l’imbarazzo e l’agitazione serpeggianti. «Tutta la pièce è permeata dal senso ineludibile di una violenza e di una minaccia incombenti. Il male esiste, sembra essere governato da qualcuno sopra di noi, ma in realtà è annidato in noi stessi e non accetta domande né rilascia risposte: si impone e colpisce», così si legge nelle note di regia, ed è proprio ciò che la messinscena restituisce. I due lettini da ospedale a far da arredo, il sottile cordone quadrangolare che restringe ulteriormente l’ambiente (come fosse una scena del crimine?), l’uso del live looping in scena, che fa risuonare una partitura di intime vibrazioni o ricordi agghiaccianti: scelte semplici, ma efficacissime. Così come il finale lirico e metaforico (meglio non svelarlo), che fa emergere anche le notevoli doti canore della De Stefano e quelle coreutiche della Caldarano.

Lo spettacolo dura poco più di un’ora, e si fa guardare dall’inizio alla fine con crescente curiosità.

VERDETTAZZO

Perché:
Se fosse... una stanza della casa sarebbe... una vecchia sala da pranzo, rimessa a nuovo da una mano femminile

Locandina dello spettacolo



Titolo: Il calapranzi

di Harold Pinter
regia, luci e scene Mila Vanzini
con Claudia Caldarano, Roberta De Stefano
tecnico luci Elena Piscitilli
produzione Vancaldes


Il calapranzi (The Wondering Waitress) semifinalista premio Anna Pancirolli 2014 Il mondo è un luogo piuttosto violento, quindi la violenza nei miei testi è spontanea. Mi sembra un fatto essenziale e inevitabile. Credo che tutto sia cominciato con Il Calapranzi, che per me è un testo relativamente semplice. In realtà la violenza è solo un aspetto del problema del predominio e della schiavitù, un tema ricorrente nei miei testi. [...] Io però non la chiamerei violenza, quanto piuttosto lotta per una posizione, che è una cosa molto diffusa nella vita di tutti i giorni. - Harold Pinter - Si tratta di un Calapranzi tutto al femminile, in cui le due interpreti si presentano nei loro panni di giovani donne (a differenza di altre versioni recitate da attrici “en travesti” che sono state rappresentate in passato). Ma, a parte il cambio di genere, non c’è nessuno stravolgimento drammaturgico all’opera di Pinter. Intendiamo semplicemente riportare la storia a un universo femminile, trovando una femminilità nel dire, nell’agire quelle stesse situazioni. Del resto, il margine di libertà che Pinter lascia nell’immaginare la biografia dei suoi personaggi ci permette di indagare anche nel femminile alcuni aspetti che nell’immaginario comune appartengono più specificamente agli uomini, quali la il potere e la violenza. Violenza che, dopo le foto scioccanti che fecero il giro del mondo nel 2004, delle torture compiute dalle aguzzine nel carcere di Abu Ghraib, non è più possibile affermare come estranea al “gentil sesso”. Tutta la piece è permeata dal senso ineludibile di una violenza e di una minaccia incombenti. Il male esiste, sembra essere governato da qualcuno sopra di noi, ma in realtà è annidato in noi stessi e non accetta domande ne rilascia risposte: si impone e colpisce. Pinter gli affida come machina un calapranzi che rilascia ordini anonimi. Ma la violenza e il potere non sono le tematiche a cui per prime rivolgiamo la nostra riflessione nel mettere in scena quest’opera. Quando penso al Calapranzi, infatti le frasi che più mi risuonano nella mente sono le domande. Le continue domande che pone Gus, destinate a restare senza risposta e ad abbandonarlo all’angoscia per l’ incapacità di afferrare la realtà che lo ospita. E mi vengono in mente anche i silenzi, di qui l’opera è prodiga. Anche quei silenzi sono pieni di domande, come un’eco che continua a riverberare nella testa del personaggio. E allora penso se sia giusto interrogarsi e interrogare o sia meglio, più conveniente non chiedersi nulla e andare avanti. Penso a quanti individui trascorrono una vita intera senza chiedersi perché fanno quello che fanno, chiusi nelle loro sicurezze. L’opera pare dirci che chi dubita soccombe, eppure la nostra simpatia è proprio per Gus, figura a metà fra il maldestro e il disgraziato, predestinato all’insuccesso. Ed è paradossale che un killer che metta a rischio la propria vita in ogni missione, resti vittima invece proprio di se stesso, della propria crisi interiore, delle proprie domande, incapace di vivere ed agire senza chiedersi il perché, senza rinunciare alla scelta personale, senza accontentarsi di essere un “muto servitore”. La crisi di Gus non è una crisi morale, ma nasce piuttosto dal bisogno di confrontarsi, di sentire forse quella pietà comune a tutti gli esseri umani. E l’assenza di un interlocutore che possa dare un senso al lavoro che svolge lo condurrà alla rovina. Alle domande di Gus, Ben risponde col silenzio, trincerandosi dietro al giornale o giocandolo d’anticipo per commentare ad alta voce ripugnanti fatti di cronaca. E laddove ciò non sia sufficiente a zittire il compagno, Ben usa la violenza per affermare la propria predominanza che da sola deve bastare a chiudere ogni dubbio. La verità è che Gus non conosce se stesso e solo dopo l’ultimo assassinio compiuto, quello della ragazza “spappolata” comincia a capirlo, con sorpresa. Ma il momento di fare i conti con la vita può arrivare per chiunque. Anche per chi, come Ben, sembra non aver mai avuto dubbi o esitazioni. All’improvviso può capitare che qualcosa entri come una folgorazione a evidenziare un nodo oscuro, fino a prima taciuto e inizi a incrinare ogni sicurezza. Sul finale Ben si troverà a puntare la pistola contro al compagno e dovrà compiere la sua scelta. Continuerà a tacere, a fare il muto servitore? Nell’approcciarmi a un testo da metter in scena non costruisco a priori un’idea registica a cui poi chiedere agli attori di aderire. Osservo il loro modo di stare, di essere sulla scena e da quello parto per riflettere insieme. L’unico reale appiglio alla messinscena è la profonda analisi drammaturgica che svolgiamo. Questo ci permette di lasciare nell’atto performativo ampi margini di improvvisazione e di dialogo con le contingenze proprie di ogni luogo che andiamo ad abitare. In scena ci sono un trabattello e una loop-station. Il primo, usato a mo’ di letto a castello, va a rinforzare quell’idea claustrofobica della stanza pinteriana, e a tratti pare diventare quasi una gabbia dell’io dei personaggi. La loop-station invece è un’amplificazione, una distorsione delle parole e dei pensieri dei personaggi. E’ il risuonatore della loro intimità, il rumore dei loro organi interni: una bolla che si apre al di fuori dello spazio-tempo della storia. Ed è anche il nostro spazio di libertà dal testo di Pinter. Può diventare un urlo agghiacciante o una canzone blues. Entriamo nella reale stanza privata dei personaggi. Dove c’ è tutta la fragilità e la miseria dell’essere umano.

Carlo Titomanlio
È una persona serissima.