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    ARCHIVIO SPETTACOLI

    Hamletmachine, R. Wilson/H. Müller (2017)

    Titolo: Hamletmachine

    uno spettacolo di Robert Wilson
    con gli allievi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica ‘Silvio d’Amico’
    testi Heiner Müller
    ideazione, regia, scene e luci Robert Wilson
    co-regia Ann-Christin Rommen
    adattamento luci John Torres
    collaboratore alle scene Marie de Testa
    costumi Micol Notarianni
    dai disegni originali di William Ivey Long
    con Liliana Bottone, Grazia Capraro, Irene Ciani, Gabriele Cicirello, Renato Civello, Francesco Cotroneo, Angelo Galdi, Alice Generali, Adalgisa Manfrida, Paolo Marconi, Eugenio Mastrandrea, Michele Ragno, Camilla Tagliaferri, Luca Vassos, Barbara Venturato
    diplomati all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico
    drammaturgia originale Wolfgang Wiens
    musiche Jerry Leiber e Mike Stoller
    sound design originale Scott Lehrer
    assistente alla regia Giovanni Firpo
    sound design e fonica Antonio Neto con Dario Felli
    direttore di scena Camilla Piccioni
    direttore tecnico Giuliana Rienzi
    allestimento scenico Ottorino Neri
    con la collaborazione di Micaela Comasini e Elisa Crespi
    produzione Compagnia dell’Accademia Nazione d’Arte Drammatica Silvio D’Amico
    progetto di Change Performing Arts
    commissionato da Spoleto Festival of 2Worlds
    per l’ Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico

    Concepito nel 1977 dopo il primo viaggio in America dell’autore, Hamletmachine nasce originariamente dall’incontro tra Heiner Müller e Robert Wilson, venendo alla luce quasi nove anni più tardi.
    Müller dichiarò successivamente che la versione di Hamletmachineconcepita da Wilson fosse “il miglior spettacolo di sempre” nella sua intera carriera, celebrando l’opera per l’incredibile e innovativo impianto illuminotecnico e visivo e per la quasi totale assenza di interpretazione scenica. Elogiato da Gordon Rogoff nei suoi scritti come “un trionfo”, valse a Wilson un Obie Award come Miglior Regista.
    La prima messa in scena risale al 7 maggio 1986 sul palcoscenico del teatro della New York University con la partecipazione degli allievi stessi; la versione tedesca segna invece il suo debutto il 4 ottobre dello stesso anno alla Kunsthalle di Amburgo. Lo spettacolo non è stato più ripreso da allora, e ritorna in scena quindi dopo ben 31 anni grazie alla commissione di Spoleto Festival dei 2Mondi e alla partecipazione dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica ‘Silvio d’Amico’.
    Müller preferisce la tragedia alle altre forme teatrali, perché gli permette allo stesso tempo di poter “dire una cosa e il suo esatto contrario” e non suggerire, invece, l’autodistruzione. Piuttosto offre così se stesso, spogliato all’essenziale. La fotografia stappata è quindi metafora del suo io – spoglio, dannato, diviso.
    Nulla in Hamletmachine può essere preso come lo si trova, ancor meno le nostre aspettative teatrali o la nostra esperienza Shakespeariana. Ma se questa fosse la sua unica innovazione, sarebbe soltanto un’altra versione delle frammentarie forme non lineari che hanno sovvertito il teatro drammatico sin da Woyzeck. A Müller non interessa la cronologia degli eventi, mescola così diversi periodi insieme, o episodi della sua stessa biografia. A differenza però della maggior parte degli americani, utilizza il palcoscenico come discorso pubblico piuttosto che la confessione privata.
    Letteralmente, il testo sembra essere più di uno scarabocchio dadaista: Il cuore di Ofelia è un orologio, le prime parole pronunciate da Amleto son “Io ERO Amleto”, ma allo stesso tempo lster sostiene che fosse Macbeth; il terzo atto, “Scherzo”, si svolge all’Università dei morti; l’attore che interpreta Amleto non dovrebbe notare che i macchinisti stanno posizionando un frigorifero e tre televisori sul palcoscenico; nel quarto atto, Amleto attacca la testa di Marx, Lenin e Mao con un’ascia.
    Ma anche se tutto questo potesse essere letteralmente rappresentato, Müller è comunque più provocante, astuto, teatrale, anche dei suoi più sfrenati sogni. In Wilson, Müller ha trovato il regista perfetto per dare vita/luce al suo scarabocchio, e in Muller, Wilson ha finalmente trovato il drammaturgo che può dare peso alle sue straordinarie e impalpabili visioni.
    Una volta visto, nulla potrebbe essere più semplice di quella soluzione razionale, cubista e geniale di Wilson, ma non è probabile che chiunque altro avrebbe potuto immaginare qualcosa del genere.

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