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    ARCHIVIO SPETTACOLI

    Nel tempo degli dèi, Paolini-Niccolini (2018)

    Titolo: Nel tempo degli dèi - Il calzolaio di Ulisse
    Regia: Gabriele Vacis

    di Marco Paolini e Francesco Niccolini
    regia Gabriele Vacis
    allestimento Roberto Tarasco
    musiche originali Lorenzo Monguzzi
    con Marco Paolini
    e Saba Anglana, Vittorio Cerroni, Lorenzo Monguzzi 
    produzione Jolefilm Srl

    Noi troveremo i luoghi delle peregrinazioni di Ulisse il giorno in cui rintracceremo il calzolaio che cucì l’otre dei venti di Eolo.
    Eratostene

    Era nata come piccola e tascabile, questa Odissea. Ma è cresciuta nel tempo, nei suoni e nello spazio: è diventata olimpica e mediterranea. Perché lui, il signor U., più lo conosci e più ti porta lontano: e la distanza (celeste e marina) è la condizione essenziale per comprenderlo e cantarlo. Perché di questo si tratta: un canto. Forse il canto. Antico di quasi tremila anni, passato di bocca in bocca, e di anima in anima: il soul per eccellenza. E più lo canti, più ti convinci che non puoi iniziarlo da metà, ovvero dal ritorno. E forse nemmeno dall’ira funeste del pelide Achille. Perché questa è la storia dell’Occidente, e tutto contiene: dal primo istante, quando nulla esisteva, e un giorno cominciò a esistere, a partire proprio da quelle misteriose, ambigue capricciosissime entità che questa storia muovono: gli dèi.

    Perché questa è una storia di dèi, mostri, uomini e guerrieri, maledettamente imparentati e legati fra di loro. E il perno è Ulisse, nipote di Hermes, amato e protetto da Atena, da Poseidone perseguitato, da Calipso immensamente desiderato e concupito da Circe. Intorno a questo signor Nessuno prima o poi incontri tutto il resto, ramificato e contorto come l’immenso ulivo nel quale scolpì il talamo nuziale suo e di Penelope, la donna che vent’anni – non si sa come – seppe attenderlo. Infiniti i fili del racconto, e i suoi protagonisti: se ne potrebbe fare non uno, ma dieci di spettacoli. E dato che tutto qui dentro è collegato nel più incredibile e sorprendente “effetto domino” che storia ricordi, è obbligatorio rifarsi da zero, riavvolgere il nastro e da lì partire. E a grandi falcate, o bracciate oppure ancora in volo sulle spalle di un dio, raggiungere quel piccolo scoglio mediterraneo: Itaca.

    Lì un ragazzino cresce. Suo padre è re. Suo nonno un baro, figlio del dio degli inganni. Su quell’isola il ragazzino diventa uomo, segnato nel corpo da un cinghiale che quasi gli sbrana una gamba, ma gli lascia in dono la scaltrezza. È diverso dagli altri condottieri: non è splendido in battaglia, spesso vince con l’inganno. Tiene gli occhi bassi, non per timore, ma perché concentra la mente, cosa che i principi più muscolosi e arroganti non riescono a fare: lui che non è bello, non è alto, non è un combattente invincibile e conosce la paura, lui sa pensare. Con la sua mente sa accrescere la confusione degli elementi e ne approfitta per sfuggire alle trappole e abbattere gli ostacoli che trova sulla sua strada. Costi quello che costi. E spesso è un prezzo durissimo.

    Quella di Troia non sarebbe stata la guerra di tutti gli eroi achei se lui non li avesse legati tra di loro proponendo un giuramento di mutuo soccorso quando quei principi si sfidarono per avere Elena, la bella Elena vittima dell’invidia degli dèi. E chissà come e quando si sarebbe conclusa quella guerra se lui non avesse trovato la soluzione, quel Trojan Horse che è rimasto così indelebilmente impresso nella memoria collettiva da dare, ancora oggi, il nome ai virus del mondo digitale.

    Perché questo è Ulisse: un eroe che non si spegne mai. Non nei vent’anni di guerra e dell’impossibile ritorno. Non negli anni dopo, con le sue nuove disavventure. E nemmeno dopo la sua morte, surreale bella e commovente. E se da 2800 anni sentiamo l’irresistibile desiderio di cantarne le gesta in ogni variante possibile e immaginabile, un motivo ci deve essere e – miracolo – il motivo sta proprio nel canto: perché, scritta da un aedo cieco che non sappiamo nemmeno se è esistito, questa storia incanta. E incanta per primo proprio lui, il signor U., che sulla via del ritorno trova altri aedi che ne cantano vittorie e dolori. Arrivato all’ultima tappa delle sue peregrinazioni, prima di rimettere piede sulla sua Itaca, ospite dal più affascinante dei personaggi che ha incontrato sulla sua lunga strada, Ulisse ascolta l’aedo e piange.

    Alcinoo, re dei Feaci, mago potente quanto Prospero, e come lui padre di una fanciulla indimenticabile, si accorge del pianto del guerriero: perché tutta quella sofferenza? perché dieci anni di guerra che non sono serviti a nulla, dato che tutto è tornato come prima tranne i morti e il lutto che ha piegato i sopravvissuti? perché dieci anni senza riuscire a tornare, in mezzo a disavventure per metà raccapriccianti e per metà di una dolcezza struggente?

    Perché i posteri avessero il canto, è la risposta che offre Prospero/Alcinoo: dono immenso per tutta l’umanità che non ha mai smesso di goderne.

    E a noi, oggi, non resta che cantarla a modo nostro: larga, divertita, sensuale, commossa, ironica, crudele, bugiarda, eccitante, straziata. E piena di musica, perché è impossibile immaginare un aedo senza la sua cetra, che nella nostra versione ha la forza ritmica di un ensemble variegato e multicolore, un gruppo di musicisti e un coro che insieme sono mediterraneo: mare terra sangue carne profumo lacrime salso vino vento. E un sonno profondo, magico, che ti rapisce una notte e ti accompagna – grazie a navi senza pilota né timoni, veloci come l’ala o il pensiero – e, con la sola forza della mente, ci porta dove un giorno dobbiamo arrivare: là dove un vecchio calzolaio cieco intreccia trame destini e rimpianti.

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