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    ARCHIVIO SPETTACOLI

    Il giardino dei ciliegi, A.Serra/Teatropersona (2019)

    Titolo: Il giardino dei ciliegi

    di Anton Pavlovic Cechov
    con Arianna Aloi, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Marta Cortellazzo Wiel,
    Massimiliano Donato, Chiara Michelini, Felice Montervino, Fabio Monti,
    Massimiliano Poli, Valentina Sperlì, Bruno Stori, Petra Valentini 
    regia, drammaturgia, scene, luci, costumi Alessandro Serra 
    produzione Sardegna Teatro, Accademia Perduta Romagna Teatri, Teatro Stabile del Veneto, TPE – Teatro Piemonte Europa, Printemps des Comédiens (Montpellier) 
    in collaborazione con Compagnia Teatropersona, Triennale Teatro dell’Arte di Milano

    I poeti sostengono che si può ritrovare in un attimo ciò che siamo stati un tempo rientrando in una certa casa, in un certo giardino dove abbiamo vissuto da bambini.
    Si tratta di pellegrinaggi molto rischiosi a seguito dei quali si contano altrettante delusioni che successi.
    Marcel Proust

    Il giardino dei ciliegi si apre e si chiude in una stanza speciale, ancora oggi chiamata stanza dei bambini.
    Tra poco arriveranno i padroni, hanno viaggiato molto, vissuto e dissipato la loro vita.
    Bambini invecchiati che tornano a casa. Tuttavia il sentimento che pervade l’opera non ha a che fare con la nostalgia o i rimpianti ma con qualcosa di indissolubilmente legato all’infanzia, come certi organi misteriosi che possiedono i bambini e che si atrofizzano in età adulta. L’incombere della scure sul giardino provoca un senso di dolore sconosciuto,
    un risvegliarsi di quegli organi non ancora del tutto spenti nella loro funzione vitale.
    Un dolore che non ha nome e che solo guardando negli occhi il bambino che siamo stati potrà placarsi.
    Non c’è trama, non accade nulla, tutto è nei personaggi.
    Una partitura per anime in cui i dialoghi sono monologhi interiori che si intrecciano e si attraversano. Un unico respiro, un’unica voce.
    Non vi è alcun tono elegiaco, è vita vera distillata: si dice, si agisce.
    Un valzerino allegro in una commedia intessuta di morte. Comicità garbata, mai esibita, perfetto contrappunto in un’opera spietata e poetica.
    I personaggi ridono e si commuovono spesso, il che non significa che si debba piangere davvero, è piuttosto uno stato d’animo, scrive Cechov in una lettera, che deve trasformarsi subito dopo in allegria. Velando di lacrime gli occhi dei suoi personaggi Cechov suggerisce la visione sfocata della realtà sensibile, una realtà spogliata dai contorni.
    Come i vetri delle vecchie case, opachi, deformi, pieni di impurità fornivano una versione estetica della vita oltre la finestra, così le lacrime agli occhi erodono le forme: gli oggetti e le persone sfumano l’uno nell’altro, i colori si sfaldano in mezzetinte, i lineamenti e le voci si disciolgono.
    Tanto che a un certo punto non si sa più chi è che parla, se una voce proveniente da un’altra stanza o noi stessi con le parole di un altro.
    La scrittura stessa agevola questo dissolversi del centro e del focus: l’opera è cosparsa di piccoli impedimenti e fraintendimenti, anche linguistici, rotture sintattiche, pianti, canti, apnee, russamenti, borbottii e filastrocche, e poi i suoni. Tutto concorre a una partitura musicale che, scrive Mejerchol’d, è come una sinfonia di Tchajkovskij.

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