ARCHIVIO SPETTACOLI

    Tre lai, Lombardi-Testori (2018)

    Titolo: Tre lai

    Sandro Lombardi legge tre lai: Cleopatràs, Erodiàs, Mater Strangosciàs
    di Giovanni Testori

    Dopo aver presentato al pubblico i Tre lai attraverso due spettacoli memorabili (Cleopatràs nel 1996 e Erodiàs – Mater strangosciàs nel 1998, entrambi Premio Ubu per la miglior interpretazione maschile) Sandro Lombardi torna a incarnare, nella nudità della scena, questi lamenti di solitudine, estremo capolavoro dello scrittore di Novate che, sulla soglia della morte, aveva mascherato dietro le sagome di tre eroine dell’antichità il suo canto alla vita. Un canto talmente autobiografico da giustificare la scelta di farlo interpretare a un uomo; un canto d’amore verso la vita cui Lombardi ha risposto con totale adesione d’attore, offrendo una delle sue prove più alte.

    In un teatrino di Lasnigo, cittadina brianzola della Valassina situata tra folti castagneti ai piedi del Monte Oriolo, e con evidenza legata strettamente alla propria vicenda biografica, Giovanni Testori ambienta un attore che intona il pianto funebre di Cleopatra sul cadavere di Antonio. Seduta su un trono «di stile egizian-canturiese», come recita la didascalia, la regina inizia il suo lamento rievocando l’erotica sensualità dei capelli, delle orecchie, del naso e dei peli pubici di Antonio, e gli intensi profumi del suo corpo, sudori ed orine compresi.

    Così inizia Cleopatràs, il primo dei Tre lai. Pubblicati postumi nel 1994, questi tre lamenti funebri sono il testamento poetico dello scrittore lombardo, la sua opera ultima e definitiva. Si tratta di un trittico drammatico che consiste di tre monologhi, tre lamenti di morte che altrettante figure femminili – Cleopatra, appunto, e poi Erodiade (Erodiàs) e la Madonna (Mater Strangosciàs) – rivolgono al loro amato. Ma al centro di questa «strampalata opera» non è la morte a porsi come tema principale, bensì l’amore. I Tre lairaccontano tre diversi aspetti dell’amore: quello ricambiato, goduto e assaporato in tutte le sue delizie, in Cleopatràs; quello del desiderio insoddisfatto, inappagato e dolorosamente frustrato, in Erodiàs; e quello infine che si consuma nel dono di sé, nell’incondizionato darsi senza niente chiedere in cambio, in Mater strangosciàs.

    Aspetto centrale dell’opera testoriana è la lingua: un impasto di dialetti lombardi e padani con inserzioni francesi, latine e altro alla ricerca della preverbalità materna.

    Fortissimo è l’elemento autobiografico per cui il nucleo centrale del monologo diventa un percorso nel tempo e nello spazio, dove attraverso una serie di tappe nei luoghi dell’infanzia lungo “la slargata a due corsie mo’ ‘desso provenzale, quella che va de Com a Lec e vicinversa” (Erba, Proserpio, il lago del Segrino, Asso, Canzo, Lasnigo, Conca di Crezzo, il Ghisallo…), si compie un viaggio nella memoria alla ricerca di un tempo perduto. Ecco allora rievocate le feste di Natale, col panettone e i torroni sull’albero; ecco i bagni al lago, dove la regina guarda ammirata Antonio fare il surf; ecco la filanda dei genitori; ecco il ricordo dell’odore di sperma (“quel misto de latte, ciaro d’ovi, quel misto de bumbùn e de bambù”); ecco le bestie, i fiori e i frutti della terra; ecco le canzoni, le arie d’opera, i monti, i tramonti e i cirri celestrini…

    Dopo Cleopatra è la volta di Erodiade: l’antica concubina d’Erode inizia il suo lamento rimproverando al Battista la sua bellezza, e rievocando di lui ogni attrattiva, muscoli e randello compresi. Maria di Nazareth, invece, si presenta infine su una sedia da cucina, dichiarando la sua umiltà, pregando il figlio Gesù di rivolgere uno sguardo di pietà verso le due dame che l’hanno preceduta sulla scena e scusandosi d’essere «del recitar poco praticata». La chiave di lettura adottata da Federico Tiezzi regista e Sandro Lombardi attore punta a vedere dietro i tre soliloqui la presenza di un uomo che, di fronte al mistero della morte, si maschera dietro tre figure femminili per meglio raccontare, attraverso la finzione di tre personaggi mitici, la verità del proprio rapporto con la vita. Niente travestimenti, dunque, e niente orpelli: solo un corpo, una voce, e la verità dei sentimenti.

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