ARCHIVIO SPETTACOLI

    Il calapranzi, H. Pinter/M. Vanzini (2013)

    Titolo: Il calapranzi
    Regia: Mila Vanzini

    di Harold Pinter
    regia, luci e scene Mila Vanzini
    con Claudia Caldarano, Roberta De Stefano
    tecnico luci Elena Piscitilli
    produzione Vancaldes

    Tournée:

    Sito ufficiale

    Il calapranzi (The Wondering Waitress)
    semifinalista premio Anna Pancirolli 2014

    Il mondo è un luogo piuttosto violento, quindi la violenza nei miei testi è spontanea. Mi sembra un fatto essenziale e inevitabile. Credo che tutto sia cominciato con Il Calapranzi, che per me è un testo relativamente semplice. In realtà la violenza è solo un aspetto del problema del predominio e della schiavitù, un tema ricorrente nei miei testi. […] Io però non la chiamerei violenza, quanto piuttosto lotta per una posizione, che è una cosa molto diffusa nella vita di tutti i giorni.
    – Harold Pinter –

    Si tratta di un Calapranzi tutto al femminile, in cui le due interpreti si presentano nei loro panni di giovani donne (a differenza di altre versioni recitate da attrici “en travesti” che sono state rappresentate in passato).
    Ma, a parte il cambio di genere, non c’è nessuno stravolgimento drammaturgico all’opera di Pinter. Intendiamo semplicemente riportare la storia a un universo femminile, trovando una femminilità nel dire, nell’agire quelle stesse situazioni. Del resto, il margine di libertà che Pinter lascia nell’immaginare la biografia dei suoi personaggi ci permette di indagare anche nel femminile alcuni aspetti che nell’immaginario comune appartengono più specificamente agli uomini, quali la il potere e la violenza. Violenza che, dopo le foto scioccanti che fecero il giro del mondo nel 2004, delle torture compiute dalle aguzzine nel carcere di Abu Ghraib, non è più possibile affermare come estranea al “gentil sesso”.
    Tutta la piece è permeata dal senso ineludibile di una violenza e di una minaccia incombenti. Il male esiste, sembra essere governato da qualcuno sopra di noi, ma in realtà è annidato in noi stessi e non accetta domande ne rilascia risposte: si impone e colpisce. Pinter gli affida come machina un calapranzi che rilascia ordini anonimi.
    Ma la violenza e il potere non sono le tematiche a cui per prime rivolgiamo la nostra riflessione nel mettere in scena quest’opera.
    Quando penso al Calapranzi, infatti le frasi che più mi risuonano nella mente sono le domande. Le continue domande che pone Gus, destinate a restare senza risposta e ad abbandonarlo all’angoscia per l’ incapacità di afferrare la realtà che lo ospita. E mi vengono in mente anche i silenzi, di qui l’opera è prodiga. Anche quei silenzi sono pieni di domande, come un’eco che continua a riverberare nella testa del personaggio. E allora penso se sia giusto interrogarsi e interrogare o sia meglio, più conveniente non chiedersi nulla e andare avanti. Penso a quanti individui trascorrono una vita intera senza chiedersi perché fanno quello che fanno, chiusi nelle loro sicurezze.
    L’opera pare dirci che chi dubita soccombe, eppure la nostra simpatia è proprio per Gus, figura a metà fra il maldestro e il disgraziato, predestinato all’insuccesso.
    Ed è paradossale che un killer che metta a rischio la propria vita in ogni missione, resti vittima invece proprio di se stesso, della propria crisi interiore, delle proprie domande, incapace di vivere ed agire senza chiedersi il perché, senza rinunciare alla scelta personale, senza accontentarsi di essere un “muto servitore”. La crisi di Gus non è una crisi morale, ma nasce piuttosto dal bisogno di confrontarsi, di sentire forse quella pietà
    comune a tutti gli esseri umani. E l’assenza di un interlocutore che possa dare un senso al lavoro che svolge lo condurrà alla rovina.
    Alle domande di Gus, Ben risponde col silenzio, trincerandosi dietro al giornale o giocandolo d’anticipo per commentare ad alta voce ripugnanti fatti di cronaca. E laddove ciò non sia sufficiente a zittire il compagno, Ben usa la violenza per affermare la propria predominanza che da sola deve bastare a chiudere ogni dubbio.
    La verità è che Gus non conosce se stesso e solo dopo l’ultimo assassinio compiuto, quello della ragazza “spappolata” comincia a capirlo, con sorpresa.
    Ma il momento di fare i conti con la vita può arrivare per chiunque. Anche per chi, come Ben, sembra non aver mai avuto dubbi o esitazioni. All’improvviso può capitare che qualcosa entri come una folgorazione a evidenziare un nodo oscuro, fino a prima taciuto e inizi a incrinare ogni sicurezza. Sul finale Ben si troverà a puntare la pistola contro al compagno e dovrà compiere la sua scelta. Continuerà a tacere, a fare il muto servitore?
    Nell’approcciarmi a un testo da metter in scena non costruisco a priori un’idea registica a cui poi chiedere agli attori di aderire. Osservo il loro modo di stare, di essere sulla scena e da quello parto per riflettere insieme. L’unico reale appiglio alla messinscena è la profonda analisi drammaturgica che svolgiamo. Questo ci permette di lasciare nell’atto performativo ampi margini di improvvisazione e di dialogo con le contingenze proprie di ogni luogo che andiamo ad abitare.
    In scena ci sono un trabattello e una loop-station.
    Il primo, usato a mo’ di letto a castello, va a rinforzare quell’idea claustrofobica della stanza pinteriana, e a tratti pare diventare quasi una gabbia dell’io dei personaggi.
    La loop-station invece è un’amplificazione, una distorsione delle parole e dei pensieri dei personaggi. E’ il risuonatore della loro intimità, il rumore dei loro organi interni: una bolla che si apre al di fuori dello spazio-tempo della storia. Ed è anche il nostro spazio di libertà dal testo di Pinter. Può diventare un urlo agghiacciante o una canzone blues. Entriamo nella reale stanza privata dei personaggi. Dove c’ è tutta la fragilità e la miseria dell’essere umano.

    SGUARDAZZI/RECENSIONI