ARCHIVIO SPETTACOLI

    Macbeth essere (e) tempo, Archivio Zeta (2016)

    Titolo: Macbeth essere (e) tempo
    Regia: Enrica Sangiovanni Gianluca Guidotti

    regia Enrica SangiovanniGianluca Guidotti
    con Stefano Braschi, Francesco Fedele, Carolina Giudice, Antonia Guidotti, Elio Guidotti, Gianluca Guidotti, Ciro Masella, Giuditta Mingucci, Alfredo Puccetti, Enrica Sangiovanni
    e con la partecipazione straordinaria di Oscar
    partitura sonora Patrizio Barontini
    percussioni Luca Ciriegi
    fiati Gianluca Fortini
    scenografie e costumi Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni
    consulenza scenografica Antonio Rinaldi
    laboratorio scenografico Morgantini.eu
    sartoria Confezioni Paradiso
    aiuto sartoria Lucia Chiodi
    assistente alla regia Beatrice Vollaro
    assistente coreografa Carolina Giudice
    assistente tecnico Andrea Sangiovanni
    cura Rossella Menna
    coordinamento organizzativo Luisa Costa
    organizzazione Lucia Guida
    amministrazione Umberto Biscaglia
    foto di scena Franco Guardascione
    foto locandina Andrea Sangiovanni
    grafica Weblogodesign
    un ringraziamento particolare a Nadia Fiorio e Alessandro Iachino per il loro lavoro di promozione e diffusione in fase di produzione
    produzione Archivio Zeta e Elsinor
    in collaborazione con ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro dell’Argine, Comune di Bologna – settore cultura, Bé bolognaestate
    con il contributo di Regione Emilia Romagna, Regione Toscana, Regione Lombardia, MiBACT Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Europa Creativa

    L’esserci, (l’essere umano) compreso nella sua estrema possibilità d’essere, è il tempo stesso.

    Martin Heidegger Il concetto di tempo

    Arriviamo finalmente al nostro primo Shakespeare, nell’anno del 400° anniversario dalla morte, dopo una lunga permanenza nella classicità greca e dopo un anno pasoliniano.

    Abbiamo deciso di lavorare sull’impronunciabile dramma scozzese perché è azione tragica e criminale che ha legami profondi, come fossero varianti sullo stesso motivo, con le vicende di Oreste ma anche con Edipo e con la sua meccanica della conoscenza.

    Questo copione perfetto che riceviamo intatto dagli archivi del tempo è una fonte inesauribile di riflessioni filosofiche e politiche. Nel Folio del 1623 Macbeth sta incastonato tra Giulio Cesare e Amleto, quasi ne fosse il cuore esplosivo.

    Immaginiamo il nostro Macbeth come un uomo nuovo, un antieroe, portatore del giusto e dell’ingiusto, un Copernico, che sulla soglia tra Cinquecento e Seicento mette in discussione lo stato delle cose, si muove tra il retaggio simbolico ancora precario nella concezione del mondo e il nuovo relativismo che porta già verso la modernità.

    La nostra lettura cerca di interrogare la parola senza affidarsi al deposito di interpretazioni e soprattutto alle immagini che si sono stratificate attorno al bozzolo originale.

    Non quindi solo (se non fosse abbastanza) una tragedia del e sul potere e sulla potenza ma una riflessione sulla possibilità, sull’uomo in potenza: tempo libero e tempo liberato dalle certezze, l’uomo non più centro ma immesso nel vuoto di orbite sconosciute. Questo è il balzo dell’essere Macbeth, il suo essere globe: l’essere catapultati in un tempo nuovo dove anche le antiche categorie morali diventano relative, dove il bello è brutto e il brutto è bello, il colpevole è giusto e l’innocente è colpevole.

    In questo dramma dal ritmo serrato emergono con furore due movimenti: il tema del tempo e quello della paura. Un tempo che fa paura.

    La paura di Macbeth è quindi quella che diventa (s)oggetto della mente, paura delle azioni, di ciò che potrà compiere ponendosi fuori dall’ordine delle cose, violando l’ordine simbolico, scardinando l’assetto del Cosmo Simbolico di cui il re (pianeta terra, occhio centrale) è sacro garante. Nel suo atto di togliere il mondo dalla sua posizione di centralità, l’uomo tenta la traversata oceanica, oltrepassa le Colonne D’Ercole, sfida la paura dell’abisso. La paura del tempo, simbolicamente circolare: un estromettersi dal regime diurno (la tragedia si svolge per gran parte in una lunga notte), dal mondo della luce. Allora una spessa notte cade su quest’uomo nuovo, affinché l’occhio non veda l’azione, il colpo che dovrà essere sferrato, la mano che compie il delitto, il male.

    Ma da dove viene questo male? Continuiamo, quotidianamente, nel nostro lavoro, a farci questa domanda. Chi spinge Macbeth verso il male? Il male che proviene dalle rivelazioni di Ecate/donnalupo e dalle Streghe/Parche è diabolico, divino. Macbeth, accogliendolo in sé, facendolo suo, lo rende umano, troppo umano. La coscienza deve essere oscurata in quest’uomo che vuole conoscere l’Universo, che vuole spingersi più in là, che mette in discussione le sacre regole del cosmo, che ha paura dell’ignoto e che la conoscenza porterà all’orrore, orrore di sé, di ciò che il suo gesto da assassino ha partorito. Come Paul Tibbets che, con una sorta di terrificante ironia, diede il nome di sua madre all’aereo che pilotava – Enola Gay – e Little Boy (ragazzino) alla bomba che portava in grembo e che avrebbe sterminato circa 200.000 esseri umani ma che allo stesso tempo avrebbe posto fine ad una guerra mondiale (So foul and fair a day I have not seen).

    Che genere di mondo è quello che ne è sopravvissuto? Chi siamo noi? Quanto è salda la nostra ossatura morale? Forse in questo senso possiamo pensarci sicuramente più simili a Macbeth che a Prometeo.

    Si compie quindi un arco ideale, dopo Edipo Re, l’Orestea e Pilade, lungo il quale un eroe tragico accoglie il male e volontariamente si spinge nelle tenebre, chiede che si spengano le stelle, che giunga l’oscurità per nascondere il proprio atto, l’abisso sconosciuto della sua ambizione e che la ragione si oscuri. Un eroe formato da due persone, parti inseparabili dello stesso dramma, assassini che ci mostrano due aspetti della mente criminale, due lobi dello stesso cervello, entrambi coinvolti e risucchiati dal medesimo universo buio e pauroso. Siamo in un incubo ad occhi aperti, rinchiusi nel cerchio di un orologio fermo, una sincope, un arresto cardiaco che sospende, anzi annulla, il tempo: solo i ricorrenti battiti che risuonano a lungo potranno sbloccare la corona, far ripartire il polso, ricominciare a respirare.

    Lo spettacolo è un buco nero attorno al quale ruota la materia, i versi si aggregano, procedono e infine proiettano l’essere umano verso un tempo nuovo. Time is free. Questo è uno dei versi finali. Una espulsione che però non purifica ma alimenta nuovo tempo. E Malcolm, il successore, non ci ha fatto un bel pronostico nelle sue autoanalisi. Non siamo liberi dal Male, non ci siamo liberati dell’idiota, ma, nel tempo teatrale di questo racconto del gelo, abbiamo assistito a un ciclo di reincarnazione. In questo risiede forse il nodo più doloroso, in questa conoscenza del profondo, in questo know well.

    Per noi che ci portiamo, sulle spalle e addosso e dentro, queste parole, dopo averle passate alla ruota dell’architettura e della storia del Cimitero Militare Germanico del Passo della Futa, luogo dei carnefici, dei nemici ma anche dei vinti, per noi la materia diventa incandescente perché si carica di ogni sound and fury della contemporaneità.

    GLG ES

    SGUARDAZZI/RECENSIONI