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Cèsar Brie: presente di adulto, memorie di bambino

Sguardazzo/recensione di "Ero"

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Cosa: Ero
Chi: César Brie
Dove: Pontedera (PI), Teatro Era
Quando: 25/11/2015
Per quanto: 60 minuti

Una zattera disegnata per terra. Il pubblico entra, qualcuno va a sedersi sulle sedie poste intorno a essa, altri sulle gradinate della platea. Riuniti, insieme per sfogliare un album di famiglia.
César Brie entra, attore naufrago. Il buio della sala si anima alla luce fioca della lanterna che porta con sé. Lentamente libera le vele e chiama a sé il suo equipaggio di fantasmi, di vestiti inanimati, di memorie di bambino.
Conosciamo la sua famiglia, poco alla volta: la madre, un vestito azzurro seduto nell’angolo in alto a sinistra; il padre, scarpe vuote, completo grigio in basso a destra; la nonna, seta rossa punteggiata di fiori accomodata in basso a sinistra. Nell’ultimo angolo, in alto a destra, una figura di cartapesta ci dà le spalle.

Ascoltiamo le parole di un vecchio bambino che ricompone la propria vita, i vestiti parlano si animano, riempiendosi di corpi invisibili. Si stringono, si abbandonano, si macchiano della malattia che ha portato alla morte del padre. In mezzo alla zattera, appesi a un filo, sospesi su un sentiero di libri gli abiti suggeriscono immagini di una giovinezza contesa tra fratelli, logorata dalla depressione della madre, dedita all’affetto per la nonna.

ERO-2-foto-P.Porto_web1Il pupazzo di cartapesta si anima. Un bambino corpo dell’ingenuità pura ancora non sporcata dall’ipocrisia del quieto vivere quotidiano. Ricorda silenziosamente all’attore com’era e quali sono le sue origini, la sua essenza più profonda.
Un richiamo a se stessi troppo doloroso, un ricordare assillante che il protagonista non riesce a ignorare. Solo con la morte del bambino, giustificata da mille scuse, l’adulto può cercare di continuare a vivere.

Il presente si mostra agli occhi di chi guarda come una lunga sfilata di caricature. Ipocrisia e opportunismo si disciolgono nell’aria.  Dal critico teatrale all’uomo politico, allo spettatore per caso. L’attore si mette in gioco, mette in gioco il proprio lavoro, prende in giro se stesso, costretto ma non sottomesso all’abiura da una folla di invisibili presenze che sembrano stringerglisi contro.

L’adulto è solo maschera, solo apparenza. Ciò che era ciò che è.
Il bambino viene liberato, torna a dare sostanza, calore e voce, al corpo vuoto del vecchio, il passato viene rievocato e con esso i primi baci, i primi amori.
Lentamente, tutto torna al proprio posto. I vestiti si accomodano, precisi, sulle sedie. La storia giocata sul filo della verosimiglianza si stempera nel buio della sala, sotto gli occhi del bambino che guarda, seduto sulle ginocchia di uno spettatore.

ERO-6-foto-P.Porto_Un viaggio attraverso l’amore, la famiglia, la morte, l’assenza, tra rimorsi e rimpianti ingialliti dal tempo. La messa in scena di César Brie si caratterizza per la sua natura fortemente evocativa, kantoriana si direbbe. Lo spettacolo procede per immagini e suggestioni, lo scorrere del tempo e della vita si traduce in fantasmi che gonfiano le stoffe dei vestiti e richiamano disperatamente un passato che riesce a divenire per un attimo fisico e tangibile.
A stemperare il tono nostalgico è il presente, richiamato con troppa foga dal grottesco ostentato. Una parentesi intrisa di troppo rancore, che taglia la memoria e inframezza la messinscena quasi interrompendo bruscamente l’empatia dello spettatore.

VERDETTAZZO

Perché:
Se fosse... un giocattolo sarebbe... un soldatino a cavallo della Playmobil

Locandina dello spettacolo



Titolo: Ero

regia César Brie di e con César Brie scene e costumi Giancarlo Gentilucci musiche Pablo Brie disegno luci Daniela Vespa burattino Tiziano Fario in collaborazione con Arti e Spettacolo / Cesar Brie César Brie presenta un monologo a più voci, un lavoro intimo, a tratti autobiografico, Ero, un viaggio attraverso l’amore, la morte, l’assenza, il dolore e la gioia, dietro al quale si nascondono vicende personali. «Credo che il reale non sia ciò che si vede. Che il reale sia in agguato dietro le vicende e le situazioni. Di quel reale “in agguato” mi occupo da tempo. Cerco di “non recitare”, di avere onestà, verità, esposizione e poesia nella finzione della recita. La scena non è per me uno spazio dove dire testi scritti da altri. Non è un luogo naturale. Non esiste la “scena” in natura. La scena esiste ogni volta che indago, osservo e abito l’esistenza senza volerci soltanto vivere. Scena come luogo in cui appare ciò che non è visibile. Ogni spazio ed ogni evento possono diventare “scena” se li osservo e li interrogo. Mi interessa qualcosa di antico, il rapporto tra il bello e il vero. Mi interessano le forme che il bene può assumere in arte senza essere noioso e retorico. Che la crudeltà e il male siano più interessanti del bene, in scena, non è una novità. Ma che la crudeltà possa essere la forma in cui la pietà si esprime in arte non è automatico. È la responsabilità di creare il legame tra pietà a crudeltà. Quella responsabilità di cui ci riempiamo la bocca nei nostri discorsi e che così poco pratichiamo nella vita e ancora meno nel nostro mestiere di artisti. La nostra cultura spesso si sostiene su delle imposture. Sulla fallacia di nominare ciò che non conosciamo e ridurre a parole le azioni che non realizziamo. I nomi al posto delle azioni e dell’esperienza. A questo spesso abbiamo ridotto la conoscenza. Responsabilità implica difficoltà, rischio. Ho indagato sulle vicende delle persone, dei miei contemporanei. Ciò che ci accomuna. Dietro le grandi parole ho scoperto migliaia di vicende. E quasi tutte collegate ad alcuni archetipi. Spesso familiari. Ho scelto questi: padre, madre, nonni, infanzia, assenza, fratelli, figli, amore, esilio, mestiere e rancore. Ho unito queste figure in un racconto che sembra autobiografico ma che non è la mia biografia. Ho raccontato di me per dire di voi nella convinzione che possiate riconoscervi in una vicenda altrui. Riconoscere, tornare a vedere alla luce dell’arte un brandello della propria esistenza. Trentasei anni fa ho fatto uno spettacolo “A rincorrere il sole”. Parlavo del suicidio di un ragazzo e del tragitto verso quel suicidio. Quel lavoro disperato, fatto in esilio, nell’istante in cui crollavano i nostri miti, mi salvò la vita. Credevo di parlare dei miei amici suicidi e in realtà esorcizzavo il mio suicidio rannicchiato sotto le sconfitta di una generazione. ERO forse cerca di chiudere quella parentesi aperta. Parlavo degli altri per riscattare me. Parlo di me per dire degli altri e forse riuscire ancora a riscattarmi.» (César Brie)

Gemma Salvadori
Nata a Volterra nell'inverno del 1992, vive lì, studia a Pisa. Sogna di vivere in un attico con un cane e quattro gatti: tutto molto bello ma davvero poco interessante. Fuma e scrive su un' agenda bancaria più vecchia di lei rivestita con la carta da parati della nonna del suo vicino di casa.