Riccardo e la tragedia che spalanca il teatro

Sguardazzo/recensione di "La tragedia di Riccardo III"

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Cosa: La tragedia di Riccardo III
Chi: Renata Palminiello
Dove: Pistoia, Teatro Manzoni
Quando: 05/10/2016
Per quanto: 120 minuti

Rovesciare il teatro, o quasi, rimettendo in gioco la sua prima e fondante dimensione essenziale, quella dello spazio: è percondentro lo spazio che, infatti, prendon vita i corpi, s’espandono i suoni, si palesano i colori, ora strillati per un’illuminazione violenta, ora tenui, sfumati dal dosaggio attento e l’applicazione di filtri cromatici. Dallo spazio che è il teatro promana l’altro impasto ineludibile dei drammi della scena occidentale, quello composto da relazioni, rapporti di forza, attriti; sempre mutevoli, pronti allo strappo, come l’animo umano cui parrebbero rimandare.

Nella visione del teatro come dispositivo da de e ri-strutturare partendo proprio dalla spazialità stanno pregio e coerenza del lavoro con cui Renata Palminiello ha investito la più bruciante delle tragedie scespiriane, quella fiaba nera rispondente al titolo di Riccardo III. E poiché, in scena come nella vita, l’autentica fedeltà necessita sempre d’un qualche tradimento, per meglio cogliere l’ascesa del deforme usurpatore si risale la china dei titoli del drammaturgo inglese, campionando sequenze da Enrico VI a trasformare la presente messinscena in La tragedia di Riccardo III.

la-tragedia-di-riccardo-iii-2-foto-matteo-tortoraAccediamo ai palchetti dei primi due ordini: la platea ingombra è propagazione del palco, senza soluzioni di continuità: l’idea ricorda un bel Čechov di Silvia Pasello visto a Buti anni fa. In simile campo aperto, minimi arredi: tutto affidato agli attori, le loro traiettorie, fisiche e simboliche, le parole a scolpire storie e relazioni. L’incessante andirivieni (benché breve, la storia di Riccardo è ricca di caratteri) popola il teatro tutto: non risparmia foyer e corridoi lo scalpiccio ostentato, ossessivo, a farci sentire attorniati, come in trappola all’interno d’un brulicante maniero quattrocentesco.

la-tragedia-di-riccardo-iii-1-foto-matteo-tortoraIl ribaltamento prossemico investe nel profondo una recitazione di ostensioni rotonde, sottolineature a tratti smaccate, volutamente distanti da un naturalismo qui senz’altro fuori luogo. La composizione del cast, analogamente al lavoro nel complesso, coinvolge un’articolata serie di realtà locali, giovani e studenti, all’opera in scena e fuori, encomiabile sforzo d’un teatro che vuol respirare con la città, intercettandone le forze, accompagnandola nella vita comunitaria, sebbene questo possa suonar utopico in tempi come i nostri. Corrono, sbattono, tramano e s’armano, le pedine dell’orditura infame di Richard (Gabriele Reboni), nugolo di figure destinate al sempre impressionante macello conclusivo. E che impressione quelle luci sparate (unica trovata tecnologica dell’intero costrutto) a coronare il finale, col protagonista, impossibile non amarlo, in cerca di sella ad affrontare, da vivo, la morte.

Slacciata dall’interpretazione psicologistica spesso incombente sui testi del Bardo, la tragedia si dipana e sprigiona nell’antro dilaniato d’un teatro qui più che mai si lega alle esperienze di Palminiello con Thierry Salmon.
Lo smontaggio investe ogni certezza depositata nella memoria, rendendo una materia viva, di corpi e volumi pulsanti, al di là della testualità originaria, al di là della recitazione più o meno puntuale (Massimo Grigò, Enrico IV poi Hastings, è comunque garanzia assoluta), al di là di tutto quel che si crede, a volte, debba essere teatro.
Certo, questo bel lavoro, con ulteriori limature e un organico ancor più qualificato, potrebbe non faticare a guadagnarsi il suffisso capo, ma il senso di certe pratiche non necessariamente è quello di licenziare “prodotti” perfetti, quanto di dare vita a operazioni artistiche di senso. E in questo caso, non si può che applaudire, e tanto.

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VERDETTAZZO

Perché:
Se fosse... un evento idrico-gelogico sarebbe... una (proficua) tracimazione di un fiume

Locandina dello spettacolo



Titolo: La tragedia di Riccardo III

da William Shakespeare
adattamento e regia Renata Palminiello 
movimento Elisa Cuppini
con (in ordine di apparizione) Rosanna Sfragara, Sena Lippi, Mariano Nieddu, Costantino Buttitta,
Gabriele Reboni, Massimo Grigò, Sofia Busia, Daniela D’Argenio, Carolina Cangini, Jacopo Trebbi
e con la partecipazione di adulti e adolescenti non professionisti
luci Emiliano Pona
consulenza musicale Massimo Caselli
maestro di canto Marco Mustaro
assistente alla regia Matteo Tortora
armature ideate e realizzate da Francesco Silei
oggetti di scena ideati e realizzati dal Liceo Artistico “P. Petrocchi” – Pistoia
elementi di scena ideati e realizzati dal Laboratorio Scena & Tecnica Associazione Teatrale Pistoiese
una creazione che si è avvalsa della collaborazione artistica di Bruno Stori

una produzione Associazione Teatrale Pistoiese Centro di Produzione Teatrale
con il sostegno di Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Regione Toscana
in collaborazione con Armunia Centro di Residenza Artistica Castiglioncello
e con Scuola di Musica e Danza Teodulo Mabellini e Liceo Artistico P. Petrocchi di Pistoia

Questo materiale drammaturgico è inevitabilmente parte della nostra memoria. Nel Riccardo, come in altri testi di Shakespeare, ci sono intere frasi di cui siamo sicuri di conoscere il significato, che aspettiamo di ascoltare dagli attori, appuntamenti ai quali siamo arrivati in anticipo, sicuri. Poi comincia il lavoro e crollano una ad una le certezze, “prendere non è dare” forse non vuol dire proprio quello che ci sembrava, vacilla persino “il mio regno per un cavallo”. E si ricomincia da capo, dagli errori, dalla confusione. Perché è così difficile ricordarsi, per esempio, che il morto che Anna vuole seppellire non è suo marito ma suo suocero? E poi perché non è suo marito? Anche nelle risposte poi si comincia a sbagliare. Elisabetta dice a Riccardo “i miei bambini erano destinati ad una morte più bella se Iddio avesse concesso a te il dono di una vita più bella”, ma una analisi psicologica fatta di traumi infantili, di progetti di vendetta contro la vita crudele, non costruisce da sola l’azione drammatica necessaria alla scena. Perché Clarence ci sembra una vittima mentre è un colpevole, perché dimentichiamo il torto subito da Margherita e chiediamo la sua follia? Così si comincia a fare, a stare nelle scene senza pensare di doverle possedere interamente. Si comincia di fatto a non fidarsi solo di se stessi e si accettano i maestri, gli archetipi dei personaggi, la Storia, il linguaggio. Si scopre così che bisogna stare nel tempo veloce e lento che dà la scrittura, che è meglio pensare all’amore piuttosto che al dolore nato dalla sua perdita, che è impossibile lavorare una scena separata dall’altra, perché i personaggi sono “lunghi”, si allungano verso la successiva, hanno obbiettivi diversi ma uno su tutti: vogliono sopravvivere. Questo non li rende innocenti, ma li rende vivi. E la follia vera è solo di chi “par che voglia morire”.  Renata Palminiello  

Igor Vazzaz
Toscofriulano, rockstar egonauta e maestro di vita, si occupa di teatro, sport, musica, enogastronomia. Scrive, suona, insegna, disimpara e, talvolta, pubblica libri o dischi. Il suo cane è pazzo.