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Sette, anzi nove domande a

Antonio Rezza e Flavia Mastrella

Sette, anzi, nove domande ad Antonio Rezza e Flavia Mastrella

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Antonio Rezza e Flavia Mastrella: un binomio artistico che dura da più di un quarto di secolo.
In occasione del debutto torinese del loro ultimo lavoro, Anelante (di cui vi proponiamo il nostro sguardazzo), l’Arlecchino Andrea Balestri ha sottoposto entrambi al nostro questionario, un’intervista d’una decina di domande (e risposte) da far passar la voglia di sottoporsi ai questionari.

Innanzitutto, sette, anzi, nove domande. 

Perché gli spettacoli iniziano alle nove di sera?
Flavia Mastrella: È un ottimo orario, perché non è né troppo notte, né troppo giorno.
Antonio Rezza: In tutta Italia, dici? Perché in Russia mi ricordo facemmo alle sette. È giusto che inizino alle 9: nelle pomeridiane il corpo non è pronto, la sera è più reattivo. Poi perché il giorno la gente lavora.

Cosa non dovrebbe essere ammesso in teatro?
FM: 
Le norme antincendio.

AR: I bambini che strillano e le mamme che cercano di farli star zitti. Quella è la cosa che mi dà più fastidio.

Che opinione hai del pubblico teatrale?
FM: 
Io non ho un’opinione precisa, sono pur sempre persone…

AR: Non è come l’esercito, non è un pubblico professionista. Ho un’opinione positiva di chiunque sta lì per caso.

Meglio una platea straripante abbonati o una cantina di pochi appassionati?
FM: Gli abbonati li vedo sempre come il terrore del teatro: sono molto severi e se qualcosa li turba se ne vanno. Sono reattivi, è una popolazione un po’ diversa. Comunque meglio tanti, ma io sto dalla parte del palco, la platea mi interessa relativamente.
AR: Straripante abbonati, decisamente. Gli abbonati mica so’ stupidi: cercano di farceli diventare, ma non lo sono. Io penso che sia grave che tutto il mondo non sia abbonato ai nostri spettacoli.

È possibile fare teatro senza fare spettacolo?
FM: Nel nostro caso andiamo in scena negli spazi del teatro con un’espressione visiva ed emotiva, completamente estranea al teatro anche nell’intenzione comunicativa.
AR: È possibile strappare di mano i teatri a chi fa spettacoli con la mano destra e telefona con la sinistra. È auspicabile destituire i direttori artistici cattivi non per indole ma per incapacità. Tanti auguri di pronte dimissioni. Non a tutti. Ma chi lo è lo sa.

Che senso ha, per te, la critica teatrale?
FM: Adesso proprio nessuno, ha solo un senso veicolatorio per indirizzare il pubblico, e di fatto non ti aiuta, non ti arricchisce.
AR: Ci sono pochi critici “veloci”: non nel giudicare o recensire, ma nel mettersi dalla parte del critico senza essere un attore fallito. Io riconosco quando le recensioni vengono da un critico che avrebbe voluto fare l’autore/attore. Qualunque critico non frustrato è un buon critico.

Che spettatore sei? Cosa dovrebbe fare un’opera?
FM: Io amo le emozioni. Se mi emoziono mi piace, è bello, come tutto ciò che non ti aspetti.
AR: Mi aspetto che un’opera non mi prenda per culo attraverso la comprensione, il teatro sociale, l’impegno civile, la narrazione: ecco, non voglio vedere queste cose. Non voglio giocare sullo stesso tavolo di chi sta sul palco. Mi piace stupirmi.

Un lavoro a cui hai assistito e che rivedresti anche stasera.
FM: Io ho visto un lavoro giapponese un anno e mezzo fa, che rivedrei volentieri. Si chiamava Yaneura (che in giapponese vuol dire La mansarda) con testo e regia di Yoji Sakate.
AR: Direi che non ho visto lavori che rivedrei due volte: non significa che ho visto lavori brutti, ma non ho visto lavori che rivedrei. Non mi viene in mente niente di clamoroso, semmai più film che spettacoli.

Il tuo lavoro che vorresti far vedere a tutti. E quello che avresti voluto evitare.
FM: Faccio tantissimi lavori, e normalmente si fanno per farli vedere: non ho preferenze. Cerco di evitare di fare cose che non mi piacciono, e appena mi arriva una proposta capisco già se è bella o brutta.
AR: Evitare nessuno, perché noi se facciamo un lavoro che non è bello non va in scena, quindi non ci sarà mai questo rischio. Siamo liberi, indipendenti, e andiamo in scena solo se il lavoro ci piace: se non ci dovesse piacere non facciamo la tournèe. Quello che vorrei che tutti vedessero è questo, perché è quello che forse mi ha stupito di più, perché non riesco a capire come sia uscito fuori. Noi stiamo sempre dalla parte dell’ultimo: se riconosci di perdere colpi ammetti il tramonto.

E adesso… tre risposte a cui formulare la domanda: 

Non è una questione di pura e semplice contrapposizione, quanto, piuttosto, di individuare un’armonia funzionale al contesto dato.
FMChe cos’è il ritmo?
AR: Dì a Igor che questa non ce la faccio… Ecco: “Perché ti contrapponi invano?”, chiedo a Igor (che s’è salvato in calcio d’angolo con questa risposta).

In effetti, la figura di Arlecchino, così densa di sfumature e implicazioni sia teatrali sia antropologiche, esprime alla perfezione la dualità del gesto di guardare ed essere osservati, il rapporto profondo e, talvolta, vischioso, tra lo stare in scena e il gettare lo sguardo a ciò che sta oltre.
FMChi è Goldoni?
AR: Può Goldoni avere il fiato corto se non nella figura di Arlecchino?

Grazie per la domanda. Un nome secco? Emma Dante.
FMChi lavora alla Scala?
AR: Chi è che riesce a gestire un potere così misteriosamente ottenuto, addiritttura dirigendo il Teatro Olimpico di Vicenza?

l'Arlecchino
È un semplicione balordo, un servitore furfante, sempre allegro. Ma guarda che cosa si nasconde dietro la maschera! Un mago potente, un incantatore, uno stregone. Di più: egli è il rappresentante delle forze infernali.

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