Sette, anzi nove domande a

Roberto Bacci

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Io, che sono Arlecchino, a suon di frequentar teatri, non posso trattenermi dal conoscere persone, e parlarci. Non che sia cosa appassionante, a dire il vero, anzi, ma è quasi inevitabile. Talvolta, capita pure di trovarsi dinanzi a personaggi importanti del teatro italiano, e non solo, come nel caso di Roberto Bacci.
Di lui, si sanno molte cose, giacché se Pontedera è divenuta una delle città più importanti al mondo per il teatro contemporaneo lo si deve (anche) a lui: allievo e collaboratore di Eugenio Barba, così come di Jerzy Grotowski, il regista pisano rappresenta l’anima del Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale, frutto della collaborazione, iniziata nel 1974, con Giorgio Angiolini, Dario MarconciniGiovanna Daddi e il loro Piccolo Teatro di Pontedera. Delle sue collaborazioni con teatranti di livello internazionale s’è letto e scritto assai, così come delle sue direzioni artistiche: a Santarcangelo dal 1978 al 1989 (dal 1984 in solitaria), a Volterra, nell’epoca pre Punzo (incredibile: Volterra esisteva anche prima del regista campano) e, ovviamente, al Teatro Era, ivi compresa la peculiare e controversa promozione a Teatro Nazionale in sinergia con la Pergola fiorentina.

Ci accoglie, come avvenne due anni or sono in occasione dell’intervista sul FUS, nel suo studio, all’ultimo piano del Teatro Era: il fumo denso e a suo modo aromatico del sigaro crea una foschia che pare effetto calibratissimo; due enormi tavoli in legno massello, pieni di libri e altri arredi di pregio contribuiscono a dar l’idea d’un ambiente maestoso, come una scenografia scientemente pensata per incutere timore riverenziale.
Ci sediamo e chiacchieriamo un po’, sfuggendo la tentazione di parlare esclusivamente di calcio, la vera, grande passione di Bacci, concretizzata nel tifo per il Pisa: ci riusciamo, sfidando il suo sguardo azzurro e un po’ compiaciuto, che tanto ci ricorda un verso d’una canzone di De Gregori (ma non diciamo quale).

Innanzitutto sette, anzi nove domande.

Perché gli spettacoli iniziano alle nove di sera?
Perché siamo un paese incivile.

Cosa non dovrebbe essere ammesso in teatro?
Dal punto di vista di chi lo fa o dello spettatore?
Secondo te, quindi dal punto di vista di chi il teatro lo fa.
La scelta.

Che opinione hai del pubblico teatrale?
Pubblico è, per me, una parola priva di significato. Quello che conta è lo spettatore, non il pubblico.

Meglio una platea straripante abbonati o una cantina di pochi appassionati?
Per la mia storia, personale e artistica, è sicuramente meglio la cantina. Certo, se la cantina fosse anche piena di abbonati, andrebbe senz’altro bene.

È possibile fare teatro senza fare spettacolo?
Dovrebbe sempre essere possibile.

Che senso ha, per te, la critica teatrale?
Oggi assolutamente nessuno. Perché, sai, ormai non ci sono più critici, i grandi critici. Ho la netta impressione che la maggior parte di quelli che si dichiarano tali, vi si improvvisino. Ne faccio una questione di preparazione.
Beh, anche i grandi registi sono quasi tutti morti… Comunque, leggi le critiche?
Di solito, no. Chi dovrei leggere? Quadri non c’è più…
[Poi, però, chiacchierando, dimostra di ricordare bene che proprio su lo sguardo di Arlecchino avevamo pubblicato non una, bensì due recensioni, non del tutto positive, su 2×2=5 L’uomo dal sottosuolo la prima, del fu arlecchino Carlo Titomanlio, l’altra, di Giacomo Verde, che a Pontedera, peraltro, si è formato e ha lavorato per un po’.
Come dire… mai fidarsi dei teatranti, N.d.R.
]

Che spettatore sei? Cosa dovrebbe “fare” un’opera?
Svegliarmi.

Un lavoro a cui hai assistito e che rivedresti anche stasera.
Non ho dubbi: La casa del padre, di Eugenio Barba, dell’Odin Teatret. È il lavoro a proposito del quale scrissi la mia tesi di laurea: l’ho visto soltanto ventiquattro volte, mi pare…

Il tuo lavoro che vorresti far vedere a tutti. E quello che avresti voluto evitare.
Quello che vorrei far vedere a tutti è sempre l’ultimo, senz’altro. Se penso all’allestimento che avrei voluto (o dovuto) evitare, beh… ce n’è più d’uno. Dovendo scegliere, sicuramente direi La grande sera, uno spettacolo che realizzammo nel 1985, mi pare.

E adesso… tre risposte a cui formulare la domanda:

Non è una questione di pura e semplice contrapposizione, quanto, piuttosto, di individuare un’armonia funzionale al contesto dato.
Perché continui a andare a teatro?

In effetti, la figura di Arlecchino, così densa di sfumature e implicazioni sia teatrali sia antropologiche, esprime alla perfezione la dualità del gesto di guardare ed essere osservati, il rapporto profondo e, talvolta, vischioso, tra lo stare in scena e il gettare lo sguardo a ciò che sta oltre.
Sei d’accordo che la maschera rappresenti qualcosa di più che una materia interposta tra il volto e chi ti osserva. 

Grazie per la domanda. Un nome secco? Emma Dante.
Hai mai visto spettacoli di Emma Dante?
[Proviamo a spiegargli che non torna, ma non ne vuole sapere. Forza Pisa. Anzi, no].

l'Arlecchino
È un semplicione balordo, un servitore furfante, sempre allegro. Ma guarda che cosa si nasconde dietro la maschera! Un mago potente, un incantatore, uno stregone. Di più: egli è il rappresentante delle forze infernali.

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