Sette, anzi nove domande a

Kinkaleri

(nella fattispecie Massimo Conti)

-

Io, che sono Arlecchino, vado ramingo tra file di poltroncine, palchetti e sedie scempie, e spesso, come sapete e vedete, vi riporto quanto posso il frutto delle mie visioni.
Si ha, spesso, a che fare con gli uffici stampa e la bella gente che ci lavora, persone che, non di rado, amano il teatro non meno (talvolta assai di più) di coloro che il teatro lo fanno. Che, poi, cosa mai vorrà dire fare teatro? Senza maschere, bigliettai, tecnici, addetti alle pulizie, burocrati, autisti, sarebbe forse possibile, per attori e registi, trovar le condizioni per lavorare? Quesiti pseudo-brechtiani di cui ci scusiamo, passando oltre.

Una delle cose belle, e brutte, del teatro è che si può praticare, magari benino, la critica per anni, con cura, attenzione, rispetto, andando a vedere più spettacoli possibile, cercando di conoscere al meglio il panorama attuale. Si possono fare tutte queste cose (ce lo diciamo da soli) e, ciononostante, mancare tuttavia visioni imprescindibili, non aver assistito, cioè, a spettacoli imprescindibili, non aver ammirato artisti importanti.
È il caso, nella fattispecie, di Kinkaleri, con l’aggravante beffarda della corregionalità: compagnia d’istanza a Prato, ex-giovane gruppo (insignito, nel 2002, col premio scommesse per il futuro dalla rivista “Lo Straniero”), da anni punto di riferimento assoluto per la performance contemporanea (per i dettagli, andate direttamente sul loro sito), ammettiamo platealmente (a meno che la memoria non ci tiri un brutto scherzo, cosa poco probabile) di non averli mai visti all’opera. E stiamo parlando di decine di lavori, non di due o tre spettacoli. Peggio per noi.

Avviene così che, nella prossima fine di settimana, la formazione proponga, a Prato (Teatro Fabbricone), un nuovo lavoro, I Love You TOSCA, peraltro mancato (non colpevolmente: inserito nel calendario del teatro ragazzi; posto che quanto si fa di volontario non è assoggettabile a recriminazioni) dai recenti consigliazzi.
Melodramma, teatro, performance: ingredienti ideali per la poliedrica vocazione arlecchinesca. Leggiamo, dunque, di un adattamento da Puccini, ovviamente, rilanciando la sfida di un approccio all’opera lirica senza banalizzarne la potenza del linguaggio, rinnovando l’impianto del Gran Teatro Italiano nelle forme dei linguaggi contemporanei. In qualche modo, uno dei nostri pani (pensiamo a Un flauto magico di Peter Brook alle prese con Mozart, visto anni fa a Pontedera; ma non solo) e proprio per questo invitiamo, pure noi stessi, a una delle due repliche, sabato 21 e domenica 22 alle 17.

Offertaci l’occasione, dunque, di proporre, anzi di sottoporre Massimo Conti, uno dei fondatori del gruppo, al nostro questionazzo, è ovvio che non ce la siamo fatta sfuggire. La questione s’è svolta in modo un filo asettico, ossia per corrispondenza, a causa delle rispettive agende congestionate. Ma quel che ci proponiamo è di colmare al più presto la presente lacuna kinkalera nel nostro (im)personale bagaglio di visioni sceniche.

Innanzitutto sette, anzi nove domande.

Perché gli spettacoli iniziano alle nove di sera?
Le abitudini sono identità. Io sono contro ogni identità ostentata, questo dell’orario di quando si va a teatro mi sembra un dettaglio.

Cosa non dovrebbe essere ammesso in teatro?
Il telefono, mentre via libera a cocktail e a ogni forma di ricreazione che tende a sciogliere posizioni definite.

Che opinione hai del pubblico teatrale?
Di questi tempi, chiunque scelga di uscire di casa per andare a vedere uno spettacolo dal vivo merita tutto il rispetto.

Meglio una platea straripante abbonati o una cantina di pochi appassionati?
Meglio tutte e due.

È possibile fare teatro senza fare spettacolo?
È possibile fare teatro che diventa spettacolo.

Che senso ha, per te, la critica teatrale?
La critica dovrebbe parlare di teatro senza occuparsi direttamente degli spettacoli. Dovrebbe, cioè, sviluppare più il pensiero che il giudizio personale, per fornire davvero degli strumenti al pubblico o spettatore che sia.

Che spettatore sei? Cosa dovrebbe “fare” un’opera?
Un’opera dovrebbe, semplicemente, esistere per quello che vuole mostrare, senza trucchi del mestiere. Molti spettacoli che si fanno non esistono, non producono nessuna intensità.

Un lavoro a cui hai assistito e che rivedresti anche stasera.
Un episodio della Tragedia Endogonidia della Societas Raffaello Sanzio: Cesena 11, credo.

Il tuo lavoro che vorresti far vedere a tutti. E quello che avresti voluto evitare.
Non si butta via niente, bisogna solo accettare le conseguenze.

E adesso… tre risposte a cui formulare la domanda:

Non è una questione di pura e semplice contrapposizione, quanto, piuttosto, di individuare un’armonia funzionale al contesto dato.
Quale è l’origine del vostro nome?

In effetti, la figura di Arlecchino, così densa di sfumature e implicazioni sia teatrali sia antropologiche, esprime alla perfezione la dualità del gesto di guardare ed essere osservati, il rapporto profondo e, talvolta, vischioso, tra lo stare in scena e il gettare lo sguardo a ciò che sta oltre.
Un padrone o due padroni? Servo o selvaggio?

Grazie per la domanda. Un nome secco? Emma Dante.
Una regista italiana. Nove lettere.

 

l'Arlecchino
È un semplicione balordo, un servitore furfante, sempre allegro. Ma guarda che cosa si nasconde dietro la maschera! Un mago potente, un incantatore, uno stregone. Di più: egli è il rappresentante delle forze infernali.

Altri questionazzi

Marco Paolini

Orto degli Ananassi

Roberto Abbiati

Kinkaleri

Roberto Bacci

Michele Santeramo