Sette, anzi nove domande a

Giuseppe Cederna

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Intercettiamo Giuseppe Cederna a margine della lettura omerica attesa sul Pontile di Marina di Pietrasanta, inclusa nel progetto Iliade. Un racconto mediterraneo promosso dal Festival La Versiliana. Volto celebre, e fascinoso, del cinema di Gabriele Salvatores, Cederna è attore, ma anche alpinistascrittore (autore di almeno quattro volumi, tra diario di viaggio, narrativa, intrecciati variamente con la propria biografia): con gentilezza si è prestato al questionario arlecchino che, da tempo, aspettava di vedersi concretizzato in una serie di interviste che, ci auguriamo, non mancherà di fornire elementi di interesse.
Ecco il primo intrallazzo, condotto, per l’occasione, dall’arlecchina Viola Giannelli.
Innanzitutto, sette domande. 

Perché gli spettacoli iniziano alle nove di sera?
Perché gli attori sono condannati a lavorare a quell’ora, devono officiare un rito fuori dalla vita ordinaria. Così, quando tutti se ne tornano a casa, io mi ritrovo a uscire, a volte sentendomi anche solo, per andare a lavorare in teatro.  Adoro infatti il cinema perché le riprese si possono fare anche di mattina e gli spettacoli delle sei del pomeriggio.

Cosa non dovrebbe essere ammesso in teatro?
Annoiare lo spettatore con la banalità, la superficialità, la stupidità. Bisognerebbe guardarsi bene dal non ascoltare il pubblico. Alle volte ci sono le sedie che si schiantano dalla noia e l’attore non se ne accorge.

Che opinione hai del pubblico teatrale?
Penso che sia una meravigliosa sorpresa da prendere molto sul serio. Il pubblico teatrale è lo specchio di chi fa teatro e gli spettatori possono essere creati/educati attraverso il tipo di programmazione che si propone loro. Una certa verità e trasparenza di proposte teatrali può toccare nel profondo un pubblico.

Meglio una platea straripante abbonati o una cantina di pochi appassionati?
Dipende, forse una via di mezzo. Meglio una platea mezza piena, ma di persone che sono venute lì perché ti hanno appositamente cercato e vogliono davvero ascoltarti.

È possibile fare teatro senza fare spettacolo?
È possibile di tutto. Teatro si può fare ovunque, in strada per esempio, con o senza spettacolo, la cosa triste è quando si vede il teatro nel Parlamento. Lì la volgarità è sotto i nostri occhi ed è la cosa peggiore. Bisogna evitare la volgarità.

Che senso ha, per te, la critica teatrale?
È un aspetto importante nella vita di un artista. Un’analisi, di qualsiasi tipo, è sempre qualcosa d’interessante. Penso che sia anche un’arma a doppio taglio, perché il critico teatrale a volte può diventare vittima di sé stesso, del suo soggettivo punto di vista.

Che spettatore sei? Cosa dovrebbe fare un’opera?
Sono uno spettatore aperto e curioso, pronto alla sorpresa. In teatro spesso mi annoio, mi distacca l’attore mestierante che si nasconde dietro una maschera. Sono cresciuto come attore nudo, trasparente, senza camuffamenti e non li sopporto.

Uno lavoro a cui hai assistito e che rivedresti anche stasera.
Amleto di Nekrosius e La classe morta di Kantor.

Il tuo lavoro che vorresti far vedere a tutti. E quello che avresti voluto evitare.
La febbre di Wallace Shawn, spettacolo sull’ingiustizia nel mondo andato in scena nel 1994 al ’96, dopo un mio viaggio in Africa nel 1992; Goal Tacalabala-Il racconto del calcio, un racconto sulla passione per il calcio andato in scena nel 2003-2004 insieme a Marco Cavicchioli e Giampiero Bianchi. Attraverso dodici pezzi di letteratura e attraverso il calcio si può narrare ad altissimi livelli la vita dell’uomo con tutte le sue sfumature; L’ultima estate dell’Europa, che tratta della prima guerra mondiale in un viaggio che restituisce umanità anche quando la storia si fa cruda, terribile e disumana.
Quello che avrei voluto evitare al momento mi sfugge, è come se lo avessi rimosso…

E adesso… ti diamo tre risposte a cui tu devi formulare la domanda: 

Non è una questione di pura e semplice contrapposizione, quanto, piuttosto, di individuare un’armonia funzionale al contesto dato.
Ehm, la prossima risposta???

In effetti, la figura di Arlecchino, così densa di sfumature e implicazioni sia teatrali sia antropologiche, esprime alla perfezione la dualità del gesto di guardare ed essere osservati, il rapporto profondo e, talvolta, vischioso, tra lo stare in scena e il gettare lo sguardo a ciò che sta oltre.
Vorrei essere stato in grado di fare una domanda altrettanto intelligente e ben strutturata adatta a questa risposta.

Grazie per la domanda. Un nome secco? Emma Dante.
Se pensa a una persona/regista interessante, sensibile e complessa a chi pensa?

 

l'Arlecchino
È un semplicione balordo, un servitore furfante, sempre allegro. Ma guarda che cosa si nasconde dietro la maschera! Un mago potente, un incantatore, uno stregone. Di più: egli è il rappresentante delle forze infernali.

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