Sette, anzi nove domande a

Michele Sinisi e Francesco Asselta

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Michele Sinisi, attore e regista pugliese, ha di recente condotto al Sala Fontana di Milano un laboratorio in preparazione allo spettacolo Miseria&Nobiltá, al debutto nello stesso spazio a metà dicembre. Continua, per l’occasione, la sua collaborazione con Francesco Asselta, autore di estrazione cinematografica con cui ha già scritto Riccardo III (da noi recensito al debutto).
Li incontriamo assieme, mentre stanno lavorando a un frammento dello spettacolo da presentare a Next, l’evento in cui vengono presentate le produzioni dei teatri milanesi. Dopo aver assistito a una promettente (e divertentissima) sessione di prove, l’arlecchino Andrea Balestri ha incontrato i due per sottoporli dal vivo al questionario arlecchino. Ciro Masella, tra gli attori del laboratorio, si dilegua intimorito: non riuscirà a sfuggirci ancora a lungo e presto risponderà anche lui alle domande (e domanderà alle risposte).

Innanzitutto, sette domande. 

Perché gli spettacoli iniziano alle nove di sera?
Francesco Asselta: È un orario che prevede che tu abbia finito di mangiare ed è, soprattutto, settentrionale: da noi al Sud, alle 21 non ti sei nemmeno seduto a tavola. Il teatro, ma anche il cinema, è collegato alla dieta e al suo ritmo.
Michele Sinisi: Inizia alla 21 perché è fuori dalla vita ordinaria delle persone, è come dare al teatro un tempo successivo alle cose importanti: denota il tipo di priorità che gli diamo nella nostra vita.

Cosa non dovrebbe essere ammesso in teatro?
MS: Direi il buio, ma è come rifiutare il teatro stesso: vorrei che ci fosse di più la consapevolezza di stare tutti assieme e dare al teatro, anche formalmente, quella dimensione di rito che già ha sostanzialmente. Mi annoia il concetto di stagione, il susseguirsi degli spettacoli: preferisco avere dei progetti sul territorio, creando una comunità nel quotidiano. Se non è davvero un rito collettivo diventa il teatro sfigato per sfigati, fa tristezza ed è noioso da fare: così è ovvio che guardi con invidia la televisione e il cinema.
FA: Condivido quello che ha detto Michele: alla fine è una sensazione diffusa su cui abbiamo già avuto modo di confrontarci e trovarci d’accordo. Vieterei il nudo: non tanto in sé, ma quando è inutile. Ma, a questo punto, vieterei tutte le cose inutili e finte.

Che opinione hai del pubblico teatrale?
MS: Io credo sia specchio di quello che succede in scena: il pubblico è addormentato quando lo spettacolo è addormentato. Checché se ne dica, quella relazione è sempre presente. Secondo me è importante giocare assieme, abbassare un po’ l’asticella per riprendere l’aspetto ludico dell’inventare linguaggi nuovi, ma in cui il pubblico sia complice.
FA: Fondamentalmente, noi e gli spettatori giochiamo la stessa partita. La relazione stretta che abbiamo con il pubblico ha una sua sacralità: per me resta l’entità migliore (anche se non l’unica) per giudicare un’opera, sia teatrale, sia cinematografica.

Meglio una platea straripante abbonati o una cantina di pochi appassionati?
MS: Non ho niente contro gli abbonati: pagano per venire a teatro, figurati. Ma dipende anche dal tipo di progetto. Da attori, è bello sentire il calore della gente che ti conosce e viene appositamente per te: c’è una gratificazione da parte di una comunità che “coccola” il suo attore. Certo, può diventare pericoloso: ma ad averne di pericoli così!
FA: Io preferisco il pubblico che viene a teatro e non sa bene cosa va a vedere: forse è quello che si mette più in gioco e ha meno pregiudizi diretti. Gli abbonati hanno una curiosità involontaria, pura. Se un autore che segue una strada, a un certo punto, per una serie di motivi la cambia, una platea di curiosi puri si fa trascinare, mentre il pubblico più affezionato potrebbe sentirsi tradito.

È possibile fare teatro senza fare spettacolo?
MS: Be’, questo è un gioco sui termini: a me piace la spettacolarità come esperienza, non credo che si possano separare le due cose.
FA: Per come la intende Michele, qualcosa che ti fa uscire dal teatro e dire “Che spettacolo!“, allora sono d’accordo con lui. Per come intendo io la domanda, invece, Riccardo III non è spettacolare, per esempio.

Che senso ha, per te, la critica teatrale?
MS: Credo che la presenza della critica sia legata all’allontanamento del teatro dalla sua identità di rito. Se fossimo più centrati sulla dimensione rituale non ci sarebbe bisogno di qualcuno per sviscerare quello che è in scena, perché già apparterrebbe a chi lo vede.
FA: Nella migliore delle ipotesi, cioè quando è seria e sincera, la critica serve molto all’autore e poco allo spettatore (anche se nasce come funzione per il pubblico). Tra il critico e il pubblico si crea un rapporto di fiducia quasi sacerdotale, che nasce dal riconoscimento di un’identità di veduta nello sguardo sullo spettacolo. Quella verso il critico è una fiducia che spetterebbe al rapporto tra il pubblico e l’autore: quando viene a mancare, va in vacca quella cantina di appassionati.

Che spettatore sei? Cosa dovrebbe fare un’opera?
MS: Non cerco l’esattezza, apprezzo la generosità degli artisti nel darsi al pubblico in modo vero. Questo vale più delle storie che raccontiamo, perché alla fine raccontiamo sempre noi stessi. Lo spettacolo deve essere una cosa bella, una bella esperienza: devi metterci un po’ per tornare alla vita vera, mentre di solito il teatro è quasi un accidente nel nostro pensiero. Vorrei che il teatro rientrasse nel bisogno di connettersi con la propria spiritualità e che si vada in un orario che chieda di dedicare la giornata al teatro: come per la Messa o come era per gli antichi greci.
FA: Anch’io sono come Michele: l’importante non è capire, è esserci. In realtà io questo approccio ce l’ho con il cinema, mentre in teatro sono più uno spettatore curioso: pizzico e punto un autore o un’idea di spettacolo che parli di me e mi aiuti a comprendermi meglio. Quindi sono più selettivo e meno sacrale.

Un lavoro a cui hai assistito e che rivedresti anche stasera.
MS: “Ce ne sarebbero tanti. Mi viene in mente Piccoli suicidi di Giulio Monna: c’era solo un banchettino su cui venivano messi in scena dei suicidi con piccoli oggetti. Un’altra cosa è Al presente di Danio Manfredini: emozionantissimo. Anche L’ereditiera di Arturo Cirillo, una di quelle cose che fanno morire dal ridere, quando sono uscito di là non avevo più tensioni, avevo scaricato tutto: di un catartico pazzesco. Ma soprattutto Hedda Gabler di Thomas Ostermeier, quello sì che era spettacolare: è incredibile quanto mi abbia emozionato pur leggendo i sovratitoli di uno spettacolo in tedesco.
FA: Io ricordo un bellissimo spettacolo di Peter Brook, Fragments: quello è stato un fulmine. Ma io ho iniziato ad amare il teatro quando ho visto Leo De Berardinis al Kismet di Bari. Non ricordo nemmeno quale spettacolo fosse di preciso: lui l’ho visto più di una volta e spesso mi ha ricordato le grandi maschere comiche dell’inizio del secolo scorso; altre volte, invece, mi ha terrorizzato, anche perché lo vedevo dalla prima fila, era veramente pauroso. L’esperienza teatrale che ricordo più intensamente, però, è stato Carmelo Bene all’Oltremare di Napoli.

Il tuo lavoro che vorresti far vedere a tutti. E quello che avresti voluto evitare.
MS: Assolutamente Riccardo III: è stato concepito, nella sua snellezza, proprio per farlo girare il più possibile. Quello che vorrei non aver mai fatto è Un attimo di attenzione, una cosa che ho fatto da solo a 19 anni, totalmente rubato a Gigi Proietti. Un montaggio di pezzi in rima, roba di Cecco Angiolieri… Mi ricordo una volta a Crotone, mentre lo facevo in un pub non mi cacava nessuno: a un certo punto passò una ragazza con un ragazzo e disse “Però è bravo” e passarono avanti.
FA: Sicuramente quello che vorrei si dimenticasse di me è aver fatto l’autore di Striscia la notizia per molti anni. Mentre se devo dire ciò che vorrei far vedere a tutti, penso ad alcuni progetti che ho con Michele: il primo è un film sul pittore Giuseppe De Nittis. In teatro, invece, stiamo pensando di raccontare la vita di Franco Moschino, il più grande innovatore della moda in tutto il mondo. Una storia mai messa in scena: anche se la moda fa parte della nostra vita quotidiana, di solito è raccontata solo nel suo aspetto negativo.

E adesso… tre risposte a cui formulare la domanda: 

Non è una questione di pura e semplice contrapposizione, quanto, piuttosto, di individuare un’armonia funzionale al contesto dato.
MS: Spazio off o grande teatro?
FA: Che cazzo c’entra il Beaubourg in quel luogo a Parigi?

In effetti, la figura di Arlecchino, così densa di sfumature e implicazioni sia teatrali sia antropologiche, esprime alla perfezione la dualità del gesto di guardare ed essere osservati, il rapporto profondo e, talvolta, vischioso, tra lo stare in scena e il gettare lo sguardo a ciò che sta oltre.
MS: Qual è il motivo per cui Arlecchino è diventato lui stesso un archetipo dell’umanità a teatro?
FA: No, dai, questa è la risposta di uno che si è drogato male: sarà la domanda di una persona sobria per la risposta di una che ha fatto parecchio schifo la sera prima.

Grazie per la domanda. Un nome secco? Emma Dante.
MS: Tra gli artisti italiani di oggi, chi è che più di tutti ha il grande merito di aver sventrato il teatro di parola con un linguaggio rattrappito, dandogli nuova vita?
FA: Chi ha trovato il modo di fare sindacato attraverso il teatro, facendolo e non parlandone?

Michele Sinisi e Francesco Asselta 02

l'Arlecchino
È un semplicione balordo, un servitore furfante, sempre allegro. Ma guarda che cosa si nasconde dietro la maschera! Un mago potente, un incantatore, uno stregone. Di più: egli è il rappresentante delle forze infernali.

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