Un’estate particolare, pure troppo. Stirata, sfilacciata. Anche a Volterra, invasa di sole e vento come se niente fosse, quando tanto, troppo, è avvenuto. Dire del nuovo studio, Le parole lievi da Jorge Luis Borges, della Compagnia della Fortezza senza lambire il cascame di parole pesanti sollevato dalla rinuncia di Armando PunzoVolterra Teatro è impossibile: altrettanto impossibile è, d’altronde, sviscerare la questione compiutamente. Siamo arlecchini, e critici, parvenu al massimo grado d’un mondo scenico che ci sorride per strappar lacerti d’attenzione, ma poco tollera (eccezioni vi sono) l’esercizio schietto e disarmato d’una verace analisi. Ora più che mai, che la critica può esser solo esercizio senza potere. Almeno per noi. Questa la sua forza dirompente, benché, per alcuni, siamo semplici sfigati incapaci a passar il tempo altrimenti. Non è, questa, epoca amica a chi s’espone e tenta di portare un pensiero.

Volterra Teatro è, così, orfana di colui che per vent’anni ne ha disegnati programmi e contorni, nella sovrapposizione totale del proprio operato con la rassegna, obliterando (e quasi obliando) quel che era accaduto prima: la nascita, 1987, ispirata da Vittorio Gassman, la direzione di Roberto Bacci. L’A.P.: avanti Punzo. Una gestione adesiva, al punto da rendere inscindibile il binomio, anzi trinomio, Carte Blanche-Compagnia della Fortezza-Volterra Teatro: lecito avanzar dubbi, pur riconoscendo i meriti d’una figura visionaria e complessa, adorata e discussa, non priva di lati controversi.

Annunciando la mancata partecipazione al bando 2017 del festival, Punzo ha mescolato ottime ragioni e punti discutibili, certo cogliendo nel segno (non era difficile) a rimarcar quanto poca ragione ci sia in una politica culturale dopata dai numeri e incapace di competenza, da non saper distinguere intrattenimento e arte, ambiti onorevoli ma diversi, necessitanti inquadramenti differenziati proprio per il bene e dell’uno e dell’altro.

Ci pare, d’altronde, lapalissiano come oltre quindici anni siano lasso di tempo sufficiente per lasciar esprimere una direzione artistica e che i diritti acquisiti mal si sposino con ottiche di pubblica gestione. Se i direttori dei pubblici teatri hanno cariche triennali e limitate, perché non dovrebbe così essere anche per le rassegne? Eppure, basta connettersi col sito di VolterraTeatro per imbattersi in una palese anomalia: veniamo infatti direzionati in automatico sulla pagina web dell’ultimo progetto di Punzo. A quale diritto? Avere dubbi (massima lezione che il teatro come arte da sempre diffonde) ci par lecito.

Tutto ciò prevale, ahinoi, sul sempre abbacinante lavoro d’accerchiamento testuale visto all’interno del carcere volterrano. Borges è altro autore ideale per l’immaginazione visuale punziana, che alterna le sfuggenti figure dei racconti a quella che parrebbe un’arditissima e concettuale risalita ab originem del linguaggio e delle forme. Il cortile ospita tre aree che si riveleranno acquose: i personaggi, presenze oniriche e impressionanti, vi si inzupperanno, e con essi le rispettive storie. Sublime e portentosa, avvertiamo un’eco kubrickiana, da 2001 Odissea nello spazio, nella ricerca del volto che avevo prima che il mondo fosse creato citata dal sottotitolo di Le parole lievi.

Anche Punzo è lieve: le sue parole sono assai meno dell’usuale, benché non sia riuscito (ma si tratta d’uno studio) ancora a farsi fuori di scena. Il finale va, forse, in questa direzione: nell’abbraccio caldo e sorridente con una sorta di doppio. Se sia un passaggio o meno, lo vedremo, si spera, il prossimo anno. Gli applausi convinti non cancellano, però, altre perplessità.

(Spettacolo recensito anche da Gemma Salvadori in Quando le forme galleggiano)