Scatti da “Le donne di Chernobyl”

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Aprile 1986. Una vita fa. Eppure, in questo senso, c’è da dire che il Novecento è stato davvero secolo breve, perché, per chi era in condizioni di (semi)coscienza, Černobyl’ è un nome tutt’altro che ignoto. Forse, non tutta la dinamica dell’incidente alla centrale nucleare è chiara per tutti, anche coloro che c’erano, fisicamente o meno. Di sicuro, sono stati tristissima realtà i numerosi disguidi, le notizie maldestramente calibrate dalle autorità, l’incertezza e il terrore tra gli abitanti della zona, così come la tragica sorte dei molti che prestarono soccorso tra liquidatorievacuati e residenti di varia natura. Il tempo, del resto, era ancora quello della Guerra fredda, e la contrapposizione tra blocchi più volte ha causato irrigidimenti (ne potremmo contare molti da un lato e dall’altro) con tragiche ripercussioni, come sempre, sui semplici cittadini, quelli che non scelgono mai, davvero, dove stare, nascere o vivere.

Le donne di Chernobyl è, così, un racconto teatrale assai peculiare: sfuggente e visionario come han da essere i racconti teatrali, ricco di suggestioni, momenti sospesi, tradotti in scena da un cast di sole fanciulle, tutte attrici non professioniste. Il tutto è avviluppato alla memoria, fisica ed emotiva, di Iryna Baturka (cui si sommano, come fonti, i genitori Piotr e Galia, entrambi citati in locandina): interprete adesiva, talvolta persino in quell’eccesso comprensibile che si può immaginare quando ci si relaziona a una storia propria, faticando a dimidiare, a concentrarsi sulla forma. I momenti più felici della ragazza sono quelli coreutici, quando è il corpo a parlare. La circonda un bel coro, multiforme, persino ironico, formato da Lucia Marchese, Serena DaviniCaterina Pieraccini, Sara Vitolo Francesca Colombini: anche nel loro caso diremmo che l’elemento più forte è costituito dal lavoro corporeo (la regia è di Kety Di Basilio, responsabile dell’allestimento nel suo complesso, e di Sergio Giannini) dall’efficacia di immagini stagliate nel nero del fondale, in un gioco plastico che trascende e supera la mera dimensione narrativa. Allo stesso modo, interessante (e forse ulteriormente sviluppabile) è la parte musicale, composta dall’intarsio di voci dell’inizio, dai momenti ritmici della parte centrale e dalla struggente nenia cantata in coro su cui si scioglie un finale certo non spiazzante, ma comunque assestato.
Repliche e repliche ci vorrebbero, ma, nel nostro mondo teatrale, è assai difficile che questo avvenga: non sarà un disastro come del titolo (una perplessità, in questo senso è per le donne citate, giacché la storia non ci pare connotata in chiave di genere), ma, di certo, è l’ennesimo sintomo che più di qualcosa, nel nostro sistema scenico, non funziona.

E, proprio per la natura immaginifica del lavoro, facciamo parlare le immagini catturate dalla macchina fotografica del discretissimo arlecchino Andrea Simi.

Igor Vazzaz
Toscofriulano, rockstar egonauta e maestro di vita, si occupa di teatro, sport, musica, enogastronomia. Scrive, suona, insegna, disimpara e, talvolta, pubblica libri o dischi. Il suo cane è pazzo.

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