Note fuori stagione, collezione inverno-estate 2019

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Nella pigra calura dell’estate 2019, ecco una serie di sfiziosissimi appunti di visione riguardanti spettacoli visti negli scorsi mesi e non propriamente recensiti. Per non perderne traccia e, magari, ritornarci sopra in un altro momento. 
Il presente contributo è collettivo e sarà via via aggiornato dando la precedenza (ossia mettendo in cima) agli ultimi contributi pubblicati.

Donchisci@tte 
Alessandro Benvenuti e Stefano Fresi
(Camaiore, Teatro dell’Olivo, gennaio 2019) 
Sala straripata, e in attesa: si sarebbe detto per Sandro Benvenuti, una certezza, e sempre in bene, del teatro italiano che ancora “crede” nel rivolgersi a un pubblico non necessariamente di nicchia; colpa nostra, che usiamo la tv “generalista” solo per le notizie (finendo a bestemmie) e avevamo sottostimato la presa di Fresi, praticamente unanime e onnicomprensiva. Testo complicato, riscrittura che strizza l’occhio a Cervantes, ma pure a Benni, verrebbe da dire, attraversando gran parte della letteratura comica dell’ultimo centocinquantennio (vi abbiamo intrasentiti echi di Mark Twain, di Douglas Adams e altri ): ne esce un lavoro senz’altro onesto, con due gran begli interpreti, ma che, impressione spassionata, senza il supporto della natural benevolenza dovuta alla celebrità, avrebbe rischiato di sortire esito assai meno felice. Lo diciamo, si sa, da amanti e conoscitori veraci del gigantesco attautore fiorentino, tra i migliori teatranti tout-court della sua generazione (gli mancano un po’ di premi, ma le conventicole non hanno mai fatto per lui); del resto, pure Neeskens, in carriera, ha sbagliato qualche partita. 
Arlecchino sdraioni, come detto una volta dal malmostoso (e amico) Goretti. 
(igorvazz)

Il rigore che non c’era
Federico Buffa
(Pisa, Teatro Verdi, febbraio 2019) 
Male incurabile del nostro tempo, metastasi implicita della cultura di massa, il marketing: conta più comunicare che (ossia far sembrare che) piuttosto di esser bravi a fare una cosa. Nel caso di Buffa, giornalista con qualche capacità e parecchie fissazioni, la bocca da fuoco che è il piccolo schermo ha fatto sì d’iscriverlo al novero dei grandi narratori di sport: abbastanza falso, con tutto il rispetto. Il segaligno cronista, voce acuta e un filo nasale, spinge e promuove, in realtà, un solo prodotto, ossia il sé stesso narrante, appiattendo ogni vicenda citata (e ve ne sono, ovviamente, di bellissime: non è certo uno sprovveduto, il tipo) su una retorica iterativa, sempre uguale a sé stessa.
Sala non gremita, ma comunque ben abitata da un’evidentissima porzione di abbonati Sky strappati al divano, ansiosi di conferme rispetto a quel che si aspettavano: del resto, è proprio l’emittente a pagamento ad aver consacrato il buffismo e il suo profeta.
Nessuna sorpresa, ma aridatece Brera (per dirne uno, che comunque in teatro non andava). La questione delle scene sempre più abitate da famosi che raccontano (spesso ignorando la mera sintassi della forma utilizzata) è un problema non da poco, per quanto, in questo caso, si deve riconoscere un tentativo, seppur banalotto, di cornice, mediante un musicista in scena e la presenza di una costruzione drammaturgica. 
Arlecchino a capa sotto, senz’appello, ma sempre meglio di Travaglio, Rampini e compagnia (non) cantante.
(igorvazz)

Saremo giovani e bellissimi sempre 
Marco Chenevier
(Pisa, Teatro Verdi, aprile)
L’impressione, concreta, palpabile, nettissima, è d’aver trovato un genio. Sì, è vero, il termine è abusatissimo, e forse, per rispetto di tutti, dovremmo risparmiarcelo. Ma di questo coreo-attore valdostano, aguzzo di naso e di mente, diafano e ficcante, siamo alla quinta (o sesta?) visione, avendo replicate quelle di Quintetto e Questo lavoro sull’arancia, confermando alla grande quanto di buono ci avevano ispirato.
Alle prese con nientepopodimenoche Meister Eckhart, mistico medievale, “fissa” che fu (in quanto figura ineludibile della
teologia negativa) di Carmelo Bene, Chenevier, solo in scena per una volta in più, tira fuori un lavoro d’abbacinante stratificazione, giocando coi registri e dimostrando una grandiosa capacità di celiare sulla verità dell’enunciazione scenica (quello che si dice e si fa, quando si è là sopra), senza mai venir meno a una verità espressiva. Parla, canta, recita, mette a nudo il fatto della scena, prendendo per mano il pubblico e restituendogli una piccola meraviglia che fa ridere, riflettere, incazzare, tornare a casa certi di non aver sprecato tempo. Non sapremmo ancora dire perché, ma si ha come la sensazione di trovarsi di fronte a una dimensione che è quella (in tutt’altro contesto, ma neppure troppo) di Antonio Rezza, non propriamente l’ultimo arrivato. 
Arlecchino che salta.
(igorvazz)

l'Arlecchino
È un semplicione balordo, un servitore furfante, sempre allegro. Ma guarda che cosa si nasconde dietro la maschera! Un mago potente, un incantatore, uno stregone. Di più: egli è il rappresentante delle forze infernali.

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